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lunedì 10 luglio 2017

Archeologia della Sardegna. La Civiltà Nuragica e la sua arte sopraffina legata al culto: le navicelle bronzee nuragiche. Riflessioni di Pierluigi Montalbano

Archeologia della Sardegna. La Civiltà Nuragica e la sua arte sopraffina legata al culto: le navicelle bronzee nuragiche
Riflessioni di Pierluigi Montalbano


Fina dai tempi del Lamarmora, nel 1840, lo studio delle navicelle compare insieme a quello più generale della produzione dei bronzi figurati sardi. Lo studioso piemontese li classificava come “oggetti votivi d'origine orientale con una colomba in cima all'albero, animale dedicato a Venere”. Poiché, secondo Tacito, Iside era adorata attraverso il simbolo della barchetta per la sua forma lunata, il Lamarmora propose che le navicelle fossero dedicate ad Astarte, la divinità che riuniva in sé i caratteri di Iside e di Artemide. Nel 1884 il Crespi rifiuta l'opinione di coloro che vedono in questi bronzi delle lucerne perché “la funzione ne sarebbe impedita dalla forma, inadatta ad accogliere un eventuale lucignolo, e perché i fianchi delle navicelle sono talvolta traforati”. Tuttavia la poppa di
molte navicelle disegna una sorta di beccuccio, simile a quel che si osserva su molte lucerne, e i trafori sono sempre al disopra dell'orlo dello scafo, consentendo quindi il perfetto contenimento dell'eventuale liquido.
La protome, comune a tutte le navi antiche, rappresenta per il Crespi una "divinità tutelare, sotto la cui protezione si mettevano le navi". Altre volte la stessa è considerata un’insegna, per richiamare qualche caratteristica particolare o da cui prendeva il nome la nave. Così, ad esempio, la testa del daino può significare leggerezza e velocità. La protome era destinata a urtare come rostro. Le barchette erano per il Crespi modelli di navi reali, e a suo avviso potevano essere appese, in qualità di ex voto, nell’ambiente domestico della casa per la scampata avventura o per il felice arrivo nella nuova terra.
Nel 1884 il Pais si sofferma sull'uso, comune tra le popolazioni antiche, di ornare la prora e la poppa delle navi con un'immagine animale: d’oca, di cigno, di leone, di cavallo. Mai però di toro, di daino, d'antilope, come invece accade sulla navicelle sarde. Riprendendo il discorso del Crespi, che voleva espresse nella protome le caratteristiche di agilità e di velocità dell'imbarcazione, il Pais si domanda quale significato possa in tal senso assumere la figura, predominante, del toro. Egli nota come nell'antichità il cavallo fosse poco conosciuto nell'isola, e come siano pochissimi i bronzi raffiguranti uomini a cavallo, in confronto a quelli che invece mostrano uomini sul dorso del toro. Così, d'altronde, è anche vero che le monete puniche battute a Cartagine hanno impresso il cavallo mentre i coni coevi in Sardegna mostrano il toro.
Il toro, dunque, sostituirebbe nella decorazione prodiera il cavallo, animale che caratterizza la protome della hippos fenicia. La protome ritenuta di antilope dimostrerebbe per il Pais e il Crespi che queste navicelle appartenevano a un popolo che aveva navigato fuori dalle coste di Sardegna. Poteva anche trattarsi di ex-voti dei soldati sardi che militavano presso potenze d’oltremare. Nel 1884 era già ampiamente nota la cosiddetta navicella proveniente dalla Tomba del Duce, che per prima offriva la possibilità di una attendibile datazione da parte di Lilliu, visto che il contesto etrusco di ritrovamento la situava con ragionevole certezza intorno alla seconda metà del VII a.C., suscitando nel contempo in campo nazionale l'attenzione di un gran numero di studiosi.
L'idea che le barchette nuragiche fossero un oggetto in qualche modo legato all'uso funerario e votivo, accreditato dai luoghi e dal contesto dei rinvenimenti (tombe o templi a pozzo), nonché dall'immediato confronto con le navicelle dell'antichità orientale ed egizia, è condiviso anche dal Taramelli nel 1913. Anche lo Zervos considera le navicelle delle barche simbolico-funerarie, ma nel 1954 riconosce nelle navicelle da Oliena e da Vetulonia, ambedue con scafo di tipo carenato, un possibile modello di vere imbarcazioni. In particolare distingue le barche con scafo ellittico-convesso, di uso votivo e funerario, da quelle con scafo a sezione trapezoidale, modelli di barche reali.
Nel 1962 Lilliu, rilevando sulla navicella proveniente da Aritzo, tracce certe di un restauro antico, ribalta per primo molte di queste convinzioni leggendo il rozzo rappezzo come un’incontrovertibile prova dell'uso non solo votivo, ma anche quotidiano, domestico di questi oggetti, nei quali riconosce delle lucerne. Egli distingue tra un tipo lungo esplicitamente paragonato alla hippos fenicia e un tipo corto simile alla gôlah. Sostenendo l'uso sia pratico, come lampada, che votivo funerario dell'oggetto, Lilliu vede nelle barchette sarde una prova dell'esistenza di una marineria nuragica di cabotaggio e d'alto mare.

Una seconda prova, questa volta di fonte letteraria, andrebbe ricercata nel noto passo in cui Strabone scrive di atti di pirateria ripetutamente compiuti sulle coste della Toscana da montanari provenienti dalla Sardegna. Ciò non è condiviso dallo storico Meloni nel 1975, il quale, riportando integralmente il brano, nota che conseguentemente a tali incursioni fu deciso da Roma l'invio in Sardegna di governatori militari, e che pertanto i fatti narrati andrebbero datati non in epoca nuragica, bensì intorno all'anno 6 d.C., nel quadro di generale insicurezza che caratterizza l'isola sotto Augusto. In quell'epoca i sardi, avendo già assimilato dai Cartaginesi i segreti dell'arte nautica, e da Sesto Pompeo la tecnica dell'assalto piratesco, sarebbero stati perfettamente in grado di minacciare le coste tirreniche, ma occorre rilevare che si trattava di Sardi delle aree interne e ciò implica un legame comunque tra i sardi indigeni e il mare, continuato nel tempo e persistito sino all’età romana, quando ancora molti sardi erano imbarcati in diverse flotte come quella di Miseno.
La cronologia delle navicelle viene fatta sostanzialmente concordare con quella degli altri bronzi, con inizio nel IX a.C. Un altro studioso, il Gras, ritornerà sull'argomento nel 1985, riconoscendo come assimilabile al tipo sardo una navicella dipinta su un vaso proveniente da Skyros, databile al Miceneo III c. Non sarebbe così da escludere una retrodatazione delle sculture sarde al XI a.C. La tesi è accolta con favore dal Lilliu, che vede nella navicella di Skyros il segno della presenza d'una marineria sarda già nel XII a.C. e di mercanti nuragici che partecipano ai negozi mediterranei in tutte le direzioni.
L'idea di popolazioni nuragiche dedite all'arte della marineria e della carpenteria navale, che solcano il Mediterraneo tessendo fruttuosi commerci con altre genti rivierasche, è stimolante e affascinante, e merita approfondimenti. Poiché le fonti letterarie tacciono, ci pare che un contributo alla risoluzione di alcuni di questi interrogativi possa giungere da un esame delle attitudini e funzionalità nautiche delle imbarcazioni raffigurate nelle antiche sculture in bronzo, così da poter in qualche modo valutare se e in quale misura scafi di foggia simile a quelli presumibilmente riprodotti nei bronzi sardi fossero in grado di intraprendere viaggi e trasporti marittimi e, in caso affermativo, in quale ambito geografico. In particolare si cercherà di verificare la presenza, sulle navicelle sarde, di raffigurazioni di attrezzature e strumenti atti alla navigazione, come alberi, vele, timonerie, remi, scalmi, ponti, rostri, valutando dove possibile anche la congruità dei dimensionamenti.






Nell'immagine, la copertina del mio libro "SHRDN, Signori del mare e del metallo".






Le navicelle, per la loro rarità iconografica, hanno certamente avuto carattere più votivo che pratico. Il fattore decorativo ha, fra le sue convenzioni, il produrre immagini che superano o alterano nel mito ornamentale gli elementi della realtà e della natura. Per questi motivi propongo ai lettori una chiave interpretativa che deve funzionare secondo la visione propria di ogni singolo osservatore, secondo la propria cultura, le proprie considerazioni e le proprie convinzioni, senza lasciarsi suggestionare dalle teorie che per decenni hanno visto gli studiosi cimentarsi in un lavoro di ricostruzione storica, riguardo la Sardegna, che vedeva il popolo isolano navigare solo nei fiumi e nell'immediata linea costiera. Il mio progetto è quello di proporre una civiltà pari almeno a quelle dei popoli vicini, in grado, quindi, di produrre cultura. Ritengo offensivo, nei confronti dell’intelligenza di chi legge, proseguire lungo la strada tracciata in passato dagli studiosi negazionisti, e invito tutti a riflettere su tutto ciò che i nostri avi ci hanno lasciato, dai nuraghi ai bronzetti, dalle ceramiche alle tombe dei giganti, dai manufatti in ossidiana ai lingotti ox-hide.
Nel III Millennio a.C. la metallurgia fu una scoperta tecnologica caratterizzante, tanto da dare il nome a diverse fasi culturali della preistoria e della protostoria: Età del Rame o Calcolitico, Età del Bronzo e del Ferro. Della metallurgia interessano diversi aspetti: la ricerca dei minerali, i processi di fusione, il commercio delle materie prime e dei manufatti. A seguito della scoperta dei metalli nacquero nuove professioni come quella del fabbro itinerante.
La civiltà nuragica si sviluppò tra l’Età del Bronzo e il I Ferro, e ancora oggi ci sorprendiamo nell’ammirare tanto i resti delle più elaborate costruzioni fortificate, i nuraghi, quanto i manufatti che gli artigiani, in particolare i fonditori seppero creare, a cominciare dalle armi e dalle sculture.
La Sardegna fu tra le protagoniste nei tempi della prima metallurgia, grazie soprattutto alle miniere di rame. Questo minerale, dopo l’ossidiana, ha interessato i commerci in tutto il Mediterraneo. Un’altra isola diede impulso ai commerci dell’epoca, Cipro, che insieme a Creta e, nell’Occidente alla Sardegna, costituiva l’asse portante dei commerci navali nel Mediterraneo.
Tutti i popoli che si affacciavano sul Mediterraneo cercavano di scambiare i propri prodotti con le materie prime ricavate dalle miniere, dato che alcuni minerali erano di difficile reperibilità come, ad esempio, lo stagno. Per ottenere un bronzo di qualità si aggiungeva al rame una percentuale di stagno del 10% circa. Giacimenti interessanti si trovavano in Cornovaglia, Bretagna e Spagna, lontani dalle miniere di rame. Una delle vie commerciali di tale minerale, la cosiddetta “via dello stagno”, transitava attraverso lo stretto di Gibilterra. Una valida alternativa era offerta via terra partendo dalla Liguria, attraverso i territori di Francia e Spagna. Lungo queste vie sorsero approdi e centri di scambio che incrementarono la ricchezza delle popolazioni produttrici di tali risorse.
Il mare era sostanzialmente un’autostrada commerciale e la Sardegna non poteva essere estranea e tagliata fuori nel II Millennio a.C. quando ospitò oltre 8.000 nuraghi distribuiti a controllare ogni palmo del territorio. I nuraghi sono legati indissolubilmente alla disponibilità di notevoli risorse economiche e alla circolazione di considerevoli quantità di metallo, come peraltro confermano i frequenti ritrovamenti di lingotti in rame. Ma finché furono costruiti i nuraghi tra il XVII e il X a.C, le rappresentazioni di divinità antropomorfe o zoomorfe sono essenzialmente aniconiche (betili e disegni schematici della testa taurina).

Intorno al X a.C. dopo 600 anni si assiste a un epocale cambio strutturale nella società sarda. Dopo il crollo delle parti sommitali dei nuraghi, forse per la onerosa manutenzione, e la nascita di nuove generazioni che ponevano i commerci alla base della loro economia, sorge una classe dirigente composta dalle famiglie più importanti delle comunità, un governo aristocratico. Cambia il piano urbanistico e non si realizzano più nuraghi e tombe di giganti. Al loro posto prende vita un nuovo sistema di architetture per i vivi, le città commerciali, e per i morti, le tombe singole a pozzetto come quelle di Mont'e Prama. I nuraghi più importanti sono trasformati in luoghi di culto.
Le espressioni figurative cambiano profondamente. Oltre alla grande statuaria in pietra, inizia la fase della "miniaturizzazione", nella quale compaiono piccole rappresentazioni in bronzo a tutto tondo antropomorfe e zoomorfe. Colpisce la realizzazione di piccoli nuraghi pieni in pietra, posti su basamenti e posizionati al centro di grandi edifici sacri dotati di vasca per i riti con l'acqua e sedile periferico interno. La nuova classe dirigente consacra il proprio status di leader della comunità attraverso le piccole sculture bronzee che rappresentavano dei ed eroi da cui essi, forse, discendono e ricevono il potere. Erano realizzate con il metodo della cera persa, testimonianza archeologica che i nuragici padroneggiavano la metallurgia già da tempo. Queste opere d’arte mostrano guerrieri, sacerdoti e capi, ma anche animali e oggetti a tutto tondo.
Fra questa produzione, spiccano per bellezza le incantevoli navicelle bronzee. Sul significato di questi manufatti ancora oggi non c’è un’interpretazione univoca da parte degli archeologi. Si è pensato alla funzione votiva, a quella pratica di lucerna o di prezioso oggetto di scambio fra i capi delle società aristocratiche anche al di fuori dell’isola.
Va detto che una funzione non esclude affatto le altre, ma certo il fatto che tali navicelle fossero di bronzo, e non in semplice terracotta, dimostra la loro pertinenza a famiglie o a gruppi che volevano ostentare il proprio status aristocratico e la non comune disponibilità economica.
Attraverso questi preziosi bronzi, l’aristocrazia fa emergere anche la conoscenza del mare e delle tecniche di navigazione, e soprattutto la tessitura di rapporti con altre regioni (Etruria, Magna Grecia) e popoli (Etruschi e Greci) che si affacciavano nel Mediterraneo.
Negli scafi sono raffigurati numerosi animali e altri simboli che marcano il dominio sui prodotti della terra oltre che il legame con le antiche forze della natura che essi rappresentano.
Le navicelle sono certamente riproduzioni di barche dell’epoca e possono essere classificate in base alla forma dello scafo; questo può essere cuoriforme, ellittico come le capienti navi da trasporto o a sezione trapezoidale come le veloci navi da guerra dell’epoca.
Tutte le riproduzioni in bronzo, come le navi nella realtà, mostrano una protome prodiera di un animale che simboleggia l’epifania della divinità che protegge la barca e l’equipaggio. A differenza delle caratteristiche rappresentazioni delle altre navi di età fenicia, che propongono la testa equina, in Sardegna primeggia la testa del bue che, sul piano simbolico, rappresenta l’animale più importante dell'isola fin dal Neolitico finale, quando fu raffigurato nelle domus de janas.
Gli altri animali più frequentemente rappresentati sono il cervo, il muflone, l’ariete, il caprone. Nella corrispondente produzione in terracotta scoperta nel tempio-nuraghe di Su Mulinu a Villanovafranca da Ugas, compaiono anche esemplari di navicelle con protome ornitomorfa.
I singoli elementi costruttivi fanno emergere la dimestichezza dei sardi nuragici con il mare: alberi, modanature laterali, coffe di avvistamento, battagliole, barre di rinforzo e scalmi. La presenza di anelli per la sospensione e di alette alla base (stabilizzatori nelle navi reali, ma semplici peducci nelle sculture, pratici per poggiare gli oggetti su un piano), dimostrano l’utilizzo secondario della navicella quale lucerna. Più incerta è l’interpretazione delle colombelle che si possono ammirare sopra gli alberi. Per alcuni studiosi si tratterebbe della rappresentazione di veri animali imbarcati per individuare la rotta da seguire, vista la loro capacità di dirigersi verso terra se vengono liberati. Altri archeologi ipotizzano la funzione simbolica: quella della Dea femminile della fertilità, protettrice della navigazione.
Le navi dell’epoca possono classificarsi da guerra o da carico. La forma stretta e lunga delle prime serve ad ospitare il maggior numero di rematori possibile e a raggiungere una grande velocità nel caso di attacco; la sagoma larga e corta delle imbarcazioni da carico è idonea per aumentare la capienza.
Le navicelle sono diffuse in tutto il territorio dell’isola. Oggi se ne contano oltre 150, e una decina sono gli esemplari nuragici rinvenuti in Toscana, nel Lazio e a Crotone, nel tempio di Hera Lacinia.
La cronologia è attestata nel momento di passaggio fra l'età del Bronzo e quella del Ferro.
La produzione durò fino al VI a.C. e ancora oggi questi preziosi oggetti sono copiati per la loro originalità e bellezza. Diversi esemplari fanno parte di collezioni svizzere, tedesche e statunitensi e ciò dimostra indirettamente la straordinaria rilevanza anche estetica di queste opere, che talora appaiono come veri e propri capolavori.


Aspetti formali delle navicelle
Le analisi chimiche e metallografiche dei manufatti di epoca nuragica hanno messo in evidenza la disomogeneità di rapporto tra i componenti della lega, con l'individuazione di esemplari particolarmente ricchi di rame, e di altri con elevate percentuali di piombo e ferro. Le percentuali di stagno si mantengono stabilmente su valori canonici tra l' 8 e il 10%.
Un problema che interessa strettamente i tentativi di determinazione dei giacimenti metalliferi è la pratica della rifusione. La creazione di un oggetto metallico può, infatti, essere il risultato della fusione di più elementi metallici di diversa origine e provenienza, uniti allo scopo di riciclare il metallo mediante una nuova fusione, pratica questa molto diffusa e attestata dai numerosi ritrovamenti, effettuati soprattutto in ripostigli ed officine, di materiali frammentari accumulati per il riutilizzo.
Lo scafo, ossia l’insieme delle strutture che costituiscono il corpo di un galleggiante, si distingue in “opera viva” e “opera morta”, a seconda che ci si riferisca rispettivamente alla sua parte immersa ovvero a quella emersa. Lo scafo può essere chiuso da uno o più ponti, il più esterno dei quali è detto ponte di coperta. Su questo trovano posto varie attrezzature: alberi, scalmi, sartiame, bitte, cabine, boccaporti. Lo scafo può assumere svariate forme stabilite dalle leggi dell'idrodinamica e dalle diverse esigenze di navigazione o di carico. Scafi di foggia circolare erano in uso presso le antiche civiltà fluviali della Mesopotamia. Scafi allungati sono comuni a tutte le marinerie antiche, da quella egizia fino all'etrusca e alla fenicia. Le tecniche di costruzione di uno scafo variano secondo i materiali utilizzati: si va dai fasci di papiro legati tra loro, a zattere di tavole sovrapposte fino alle strutture con chiglia, coste e bagli.
Quest'ultima è la più perfezionata perché consente la realizzazione di scafi di grandi dimensioni con ottime caratteristiche di resistenza e leggerezza. I popoli di età fenicia furono favoriti dalla disponibilità di legname d'alto fusto come il Cedro del Libano, indispensabile per costruzioni navali di questo tipo. La struttura a chiglia e coste è costituita da un elemento longitudinale sul quale si impostano le coste, disposta in senso trasversale. Lo scheletro così ottenuto, irrobustito giungendo le mura con centine e ponti, è rivestito dal fasciame, costituito da sottili tavole di legno affiancate e talvolta sostituite da pelli, stuoie o altri materiali, resi poi impermeabili aspergendoli con pece o bitume con l'operazione che è detta di calafataggio. Le navicelle nuragiche mostrano generalmente uno scafo aperto, privo di ponte di coperta, e il fondo a volte piatto. Lo scafo aperto è sinonimo di navi non superiori a 8 metri di lunghezza perché la mancanza di elementi trasversali di rinforzo comprometterebbe, in strutture di maggiori dimensioni, le necessarie doti di resistenza alle sollecitazioni laterali, longitudinali e torsionali. La maggior parte delle barche mostra uno scafo ellittico-convesso con il fondo appiattito. La presenza contemporanea di forme convesse e fondo piatto pone alcuni problemi interpretativi: una barca a fondo piatto non può essere costruita con la tecnica a chiglia e coste, che dà normalmente origine a una sezione maestra convessa con linea di chiglia fortemente pronunciata; d'altra parte uno scafo cavo, ellissoidale e tondeggiante, non può ottenersi con altre tecniche se non con quella appena esclusa. Da ciò scaturiscono due ipotesi:
a) lo scafo delle navicelle, convesso nelle barche reali di cui esse sono il modello, è stato volutamente appiattito al fine di posare meglio in piano l'oggetto, per usarlo come lucerna;
b) lo scafo delle navicelle riproduce imbarcazioni osservate in fase di navigazione, quando la chiglia (opera viva) è sommersa e la parte emersa (opera morta) è la sola che appaia chiara alla vista.



Tutte le navicelle pongono quesiti di difficile soluzione per la funzione svolta.


Erano barche in miniatura?


E' possibile creare questi oggetti se non si hanno competenze marinaresche?

Le tracce archeologiche metallurgiche, ceramiche e architettoniche lasciate dai sardi sono numerose e importanti. E' possibile che ci siano così tante interpretazioni ma nessuna sia convincente?



Orli e listelli in rilievo sulle mura
Lo scafo delle navicelle nuragiche, di disegno lineare e di norma austero nella decorazione, presenta talvolta sulle fiancate uno o più ordini di rilievi che, a differenti altezze, corrono lungo tutto il perimetro dell'imbarcazione. Gli scafi di tipo V possiedono sempre almeno due cordonature; una, superiore, solitamente situata poco sotto il bordo; un'altra, inferiore, sempre in corrispondenza dell’intersecarsi del fondo con le bande. Una terza cordonatura è talvolta interposta equidistante tra le prime due.
Sappiamo per certo che la cantieristica antica faceva largo uso di funi e gomene nella costruzione degli scafi. Non solo nella legatura delle stuoie di papiro, come documentato nei numerosi dipinti egizi dell'Antico Impero, ma anche nella costruzione di scafi in legno, utilizzandole con precise funzioni strutturali. Questa cima era destinata a contrastare le forze che, qualora la nave si fosse trovata in dorso d'onda, avrebbero altrimenti spezzato in due o più parti lo scafo.
La struttura doveva probabilmente essere completata da una seconda cima, tesa al di sotto della chiglia, allo scopo di conferire uguale resistenza alle opposte sollecitazioni alle quali la nave era invece soggetta durante la navigazione in caso d'onda. Poco sotto il bordo, ancora oggi è d'uso che le piccole imbarcazioni applichino un listello di legno, con funzione di paracolpi (detto bottazzo), situato in tale posizione per sfruttare la maggiore resistenza che ha lo scafo in corrispondenza dell'intersezione tra le mura e le pontature di coperta.
Questo listello viene talvolta sostituito da una grossa gomena, come d'uso ancor oggi, che con il medesimo scopo corre lungo tutto il perimetro dell'imbarcazione. L'ipotesi che i rilievi a listello (e la funicella), presenti poco sotto il bordo delle navicelle nuragiche con scafo di tipo V, siano un elemento strutturale e non decorativo della costruzione, sarebbe accettabile se tali navicelle fossero il modello di imbarcazioni di modeste dimensioni adibite a compiti di traghettamento, con la conseguente necessità di proteggere lo scafo dai frequenti piccoli urti durante le operazioni di accosto, di abbordo, di approdo.
Se così fosse sarebbe possibile, a partire dalla presumibile dimensione delle gomene e dal posizionamento dei parabordi, trarre una precisa indicazione di scala che ci consentirebbe di stimare intorno ai 7 metri la lunghezza dell'eventuale modello reale di una navicella con scafo del tipo V.
Completano lo scafo di molte navicelle, oltre la protome e gli apparati di sospensione, diversi altri elementi, strutture e attrezzature tra i quali possiamo comprendere, insieme al gavone di prora che spesso risulta dalla fusione della protome con lo scafo, altri oggetti quali trasti, anellini, animali, totem, rilievi, colonnine, barrette di rinforzo.
La connessione delle parti può essere ottenuta fondamentalmente in due modi: mediante un procedimento di fusione limitato alle superfici da unire oppure mediante l'introduzione tra esse di un altro metallo fuso.
Il gavone di prora è del tutto assente negli scafi cuoriformi e del tipo V, dove è spesso sostituito da una particolare giunzione della protome che simula una funicella avvolta a spirale. Il gavone non svolge solo la funzione di tenere all'asciutto cibi, indumenti e quant'altro occorra riparare dall'acqua durante la navigazione, ma anche quella, strutturale, di chiudere con una parziale pontatura, irrobustendola, la sezione di scafo maggiormente esposta alla violenza delle onde.
La presenza del gavone può essere trascurata solo nel caso di piccoli scafi, destinati ad acque tranquille. La sua assenza parrebbe allora confermare che almeno per quanto concerne gli scafi di tipo V, non a caso sempre privi di albero, siano da escludere le grandi dimensioni e l'utilizzazione nella navigazione d'altura.
L'ambito costiero-palustre dello scafo del tipo V consentirebbe allora una diversa lettura del piccolo anellino che compare in posizione laterale su alcuni scafi, nonché del piccolo rilievo a “sella” presente sui tre scafi cuoriformi. Tanto l'anellino che il rilievo a sella si mostrano sempre nella medesima posizione, sull'orlo delle mura di sinistra in posizione circa equidistante tra prua e poppa.
C'è da chiedersi per quale motivo l'anellino sia presente su alcune barche del tipo V e C, e mai in quelle di tipo E ed EV, e sia sempre posizionato nel medesimo punto rigorosamente sul lato sinistro;
inoltre, non si vede la necessità di un ulteriore anello di sospensione, e per giunta di tanto minori dimensioni, in alternativa ad altri numerosi e più efficienti appigli, come il manico, l'anello, la protome.
Cosa si deve intendere poi per “appendere dopo l'uso”? Certamente l'espressione è da riferire all'uso domestico dell'oggetto-lucerna. Ma l'unico risultato pratico che poteva ottenersi appendendo l'oggetto lateralmente era forse quello di facilitare lo sgocciolamento dell'olio combustibile residuo, al fine di ripulire perfettamente la lampada.
Resta tuttavia da chiedersi se un artificio di così complessa realizzazione (l'anellino doveva essere fuso a parte e poi saldato in una posizione che consentisse di bilanciare l'oggetto) sia giustificabile dal modesto risultato raggiunto, che si sarebbe più facilmente potuto conseguire posando la barchetta capovolta su un piano ovvero sospendendola per la protome. Tuttavia in questi due ultimi casi i manufatti si sarebbero potuti danneggiare.
Negli scafi cuoriformi compare un piccolo rilievo a sella che per Lilliu “forse stilizza un uccello o qualche altro animaletto”. Tuttavia riesce assai difficile leggere nel rilievo la stilizzazione di un uccello e non si comprende perché in questi scafi debba mostrarsi appena accennato e per di più rinunciando alla simmetria che su altre navicelle nuragiche vuole gli uccelli sempre disposti a coppie.
Potremmo allora avanzare l'ipotesi che questi rilievi altro non siano che i frammenti residui di anellini del tutto simili a quelli già visti sulle navicelle del tipo V, e che la posizione meno protetta abbia fatto sì che nessuno di tali anelli si sia conservato integro. Si può allora ipotizzare che tale anellino non rappresenti se non un particolare tipo di scalmo atto ad accogliere un solo remo, propulsore e direzionale insieme, ovvero una pertica atta alla navigazione lagunare e palustre in bassi fondali, ovvero un unico remo con funzioni solo direzionali. Sulle navi nuragiche la propulsione doveva essere affidata a remi a pagaia (così come sono d'altronde equipaggiate le barche fenice di Korshabad), vista l'assenza di altri oggetti sulle fiancate interpretabili come scalmi. Difficilmente si può ravvisare nelle colombelle un vezzo artistico di oggetti aventi funzione di scalmo.




Le colombelle sull’anello di sospensione...e altri animali.
Diversamente vanno interpretate le colombelle che spesso ornano la sommità dell'anello di sospensione. Esistono sostanzialmente due linee di interpretazione: una fa capo al Lamarmora che considera le colombelle animali esclusivamente e variamente simbolici; l'altra, del Crespi, che legge nei volatili anche un significato funzionale e pratico, allude alla avventurosa scoperta della terra, mediante la direzione segnata dal passaggio delle emigrazioni di certi volatili. La tesi ricorda come non si può escludere che le colombelle rappresentate avessero più che funzione rituale valore pratico, “per il loro sapersi dirigere, se liberate, verso casa e che i marinai di legni a vela usavano talvolta liberare le colombe quali vivi, anche se muti e romantici, messaggi di favorevoli navigazioni”. Il navigante, fuori dalla vista della terra, faceva uso di uccelli che liberava da una gabbia e seguiva nel loro volo per raggiungere l'approdo. Questo metodo, noto nel viaggio degli Argonauti (Apollodoro), è lo stesso raffigurato su di un sigillo babilonese, seguito da Ut-Napitshstim (il Noè babilonese) nella leggenda del diluvio, e dai suoi successori biblici. La tesi trova ulteriore conferma nelle navicelle sarde dove la colombella si trova quasi sempre in cima all'anello di sospensione, correlata alla presenza dell'albero o del semialbero.
Anche altri animali, oltre le colombelle e quelli raffigurati nelle protomi, sono presenti su alcune navicelle sarde: scimmie, ranocchi, cani, anatrelle, ricci, suini, torelli con le corna giovani, pecore e altri.

Il Lilliu ritiene “la navicella da Vetulonia, come le analoghe, un esempio di battello da trasporto di lunga navigazione per la forma e le dimensioni, ma non certamente per l'ornato plastico, che non ha relazione alcuna con animali trasportati per mare. A quale scopo caricare cani e cinghiali?”.
Tuttavia lo scopo c’è: i cani sono animali da caccia e per la difesa personale, mentre i cinghiali erano preziosi per la carne e il grasso. I cinghiali possono essere addomesticati se catturati da piccoli e perciò potevano diventare una merce. Inoltre i denti e le zanne erano ottimi talismani per la loro forma lunata.
Altre strutture presenti in coperta su alcune navicelle di età nuragica sono infine barrette bronzee, cosiddette di rinforzo. Il Crespi avanza l'ipotesi che le lunghe barrette raffigurino due remi ovvero un albero a doppia antenna, temporaneamente smontato come d'uso sulle navi antiche. Vi sono inoltre le protomi prodiere: tutte le navicelle oggi conosciute, qualunque sia la foggia dello scafo, mostrano traccia di un prolungamento della prora ornato da una protome animale che riproduce in modi diversi il toro (o il bue), il cervo (o il daino), l'ariete (o il muflone). Il toro è la figura predominante.
Estremamente varia è poi la tipologia delle corna, nelle quali gli artigiani si sono sbizzarriti, per Lilliu, “nell'inventare forme, posizioni, movimenti vari, per lo più naturali rendendole col modellato per lo più robusto ma non pesante e quasi sempre elegante nelle linee bellamente ricurve”. Anche la lunghezza e l'orientamento del collo presentano una ricchissima casistica, variando da inclinazioni perfettamente orizzontali ad altre esattamente verticali. Non è da escludere l'ipotesi che la protome, saldata per ultima alla prua, venisse poi modificata nell'orientamento, deformandone il collo, per bilanciare in modo micrometrico la navicella.
Dal punto di vista nautico le protomi delle navicelle sarde, di generose dimensioni, paiono nella maggior parte dei casi inadatte alla navigazione. Nel maggior numero dei casi le protomi venivano fuse a parte e solo in un secondo momento saldate alla prora, con tecniche diverse. Si possono riconoscere le tecniche d'unione “a manicotto”, più diffuse sulle barche del tipo V, e le tecniche a “piastra saldata”, più comuni sugli scafi ellittici. Nella tecnica a manicotto la protome viene innestata tramite un bottone o spinotto in un corrispondente alloggiamento. Nella tecnica a piastra saldata la protome presenta all'estremità inferiore del collo una flangia triangolare che viene adattata, saldandola, alla prora dello scafo, formando in tal modo una sorta di gavone.
Molte delle barchette nuragiche possono essere utilizzate, oltre che posate su un piano, anche in posizione sospesa grazie ad appositi apparati di sospensione di tre tipologie: a ponte, ad albero impostato sul fondo, mista. Al culmine è situato un anello, talvolta aperto sulla sommità, altre volte saldato o chiuso in cima da una colombella. È possibile che all'anello fosse collegata una corda o una catenella del tipo “a otto”, ben noto ai fonditori di età nuragica. La sezione piatta delle maglie sembra bene adattarsi agli anelli aperti nei quali l'ultima maglia della catena poteva facilmente essere introdotta di traverso per poi reggere senza difficoltà, quando raddrizzata, l'oggetto.
L'uso di funi o catenelle sembra tuttavia impedito, in alcune navicelle, dalla presenza della colombella che sovrasta l'anello. Ci pare allora più verosimile ipotizzare che la navicella venisse sospesa inserendo l'anello in un piolo fissato alla parete in posizione orizzontale. In questo modo la colombella, lungi dal rappresentare un ostacolo, sarebbe anzi servita da appiglio per sfilare più comodamente la navicella dal suo sostegno.
Al di là delle funzioni che il manico a ponte riveste nell'oggetto-lucerna, resterebbe da chiedersi fino a che punto la sua foggia possa aver tratto ispirazione da strutture similari eventualmente presenti su un ipotetico modello reale.
Strutture centinate simili nella forma sono visibili su barche egizie dell'Antico Impero e possono essere ritrovate nei cerchi a botte delle imbarcazioni tradizionali del lago di Como. Un preciso richiamo a queste strutture, la cui funzione era quella di offrire, ricoperta con pelli o tessuti, un estemporaneo riparo dalle intemperie, uno spazio per il pernottamento. Una protezione alle merci più delicate si può leggere anche nella costruzione centinata a graticcio, o cabina, presente su alcune.
In luogo della più diffusa sospensione a ponte, sette navicelle presentano un vero e proprio albero saldato al fondo e terminante con una sorta di capitello, in cima al quale è impostato l'anello, che in questo tipo di barche è sempre sormontato da una colombella che guarda verso poppa.
Altre dodici barchette adottano invece un sistema misto, in virtù del quale un albero più piccolo è fuso in un sol pezzo sulla sommità di un manico del tipo a doppio ponte. Tanto la sospensione ad albero che quella a semialbero sono caratteristiche esclusive delle barchette a scafo ellittico di tipo E ed EV, e mancano del tutto negli scafi cuoriformi C e in quelli del tipo V.
L'albero delle barchette nuragiche, basso e tozzo, pare inadatto ad accogliere un gioco velico. È tuttavia possibile che alberi di tal fatta non fossero destinati ad accogliere vele, ma avessero in realtà il compito di sostenere, come nella hippos fenicia, una coffa di avvistamento da leggersi nel disegno a capitello della parte terminale della struttura.
Questi capitelli sono sorprendentemente simili ai ballatoi delle torri nuragiche così come raffigurate nei modellini di Ittireddu e Olmedo, tanto da far ritenere possibile l'ipotesi che alcuni alberi volessero in qualche modo significare, quasi come una sorta di “insegna nazionale”, la struttura a torre dell'edificio più rappresentativo della civiltà nuragica.


Considerazioni sugli aspetti formali e simbolici
È evidente che gli artigiani tendevano a creare un oggetto che riproducesse la forma di un'imbarcazione ed è opportuno tenere presente l'esistenza di tre categorie fondamentali di modelli:
- vere e proprie riproduzioni di navi;
- oggetti d’uso nei quali l’aspetto naviforme ha un semplice scopo decorativo;
- prodotti simbolici di uso cultuale, specie in contesti funerari, legati al concetto del viaggio nell'oltretomba.
L'identificazione delle navicelle come doni votivi è strettamente dipendente dal contesto di rinvenimento, anche se a volte si è abusato nell’attribuire alla sfera votiva gli oggetti di cui non si riusciva ad individuare la funzione. Il dono votivo può essere anche un atto di gratitudine alla divinità da parte di un uomo di mare per lo scampato pericolo. Votivo significa “offerto alla divinità”, e come tale può ben indicare un oggetto che ha una funzione pratica: una lucerna a forma navicella può avere anche un uso pratico. Il ritrovamento in diversi contesti dimostra che il bene era prezioso sia nella vita che nella morte.
Il valore religioso, oltre che dalla collocazione nei luoghi sacri, era messo in rilievo dalla valenza di ex-voto di particolare prestigio e importanza, ed all'utilizzazione della navicella come lucerna votiva adoperata nell'illuminazione degli ambienti bui, all'interno di santuari e sacelli, poggiata su un piano o sospesa per mezzo dell’appiccagnolo. La funzione di lucerna votiva è ipotizzabile sulla base del confronto con un'analoga classe di manufatti realizzati in ceramica. Gli elementi più significativi di confronto giungono dai risultati di un'importante scavo effettuato nel nuraghe Su Mulinu di Villanovafranca.
Durante lo scavo del vano “e” in strati databili al Bronzo finale, alla prima età del Ferro e all'età orientalizzante e arcaica, si rinvennero centinaia di modellini fittili di navicelle. I dati dello scavo, condotto da Ugas nel luglio 1989 mostrano la maggior parte delle navicelle con una protome generalmente bovina all'estremità della prua. Il ritrovamento di questi oggetti in un ambiente del nuraghe chiaramente adibito a sacello ribadisce il valore cultuale di queste classi di oggetti che richiamano negli aspetti tipologici le più preziose navicelle di metallo.

Al di là di un loro utilizzo in termini funzionali si leggono significati legati a convenzioni simbolico-religiose che rispecchiavano valori sociali in relazione con la figura dello status dell'offerente. La presenza di rappresentazioni animali sul margine di alcuni modellini può essere interpretata come espressione della volontà di accentuare con la ricchezza di elementi figurati il valore e l'importanza dell'oggetto.
Il ritrovamento di numerose navicelle in aree non cultuali, ripostigli ed ambiti insediativi, evidenzia comunque la circolazione e la tesaurizzazione del bene tra membri di rango della comunità, prospettando una possibilità della realizzazione dell'oggetto di pregio e della sua conservazione, non solo in vista del dono alla divinità, ma anche con l'intento di custodire in ambito domestico, privato o comunitario, un manufatto prezioso da riservare eventualmente per pratiche di scambio e dono ma questa ipotesi attualmente non si può dimostrare.
Le navicelle sono nate dall'osservazione delle imbarcazioni del tempo, lo attestano legature, alte mura, alberi, coffa. Negli esemplari più ricchi si aggiungono piccole sculture riproducenti animali. Le imbarcazioni attestano quindi un interesse per la navigazione che non poteva mancare in un popolo coinvolto nelle relazioni con l'esterno e stanziato in una terra insulare che, anche per posizione geografica, si pone al centro di un'area di intensi traffici transmarini.
Le rimarcate divergenze tipologico-formali che distinguono gli scafi delle navicelle bronzee di età nuragica possono costituire il punto di partenza per un tentativo di classificazione: da un lato abbiamo le navicelle a scafo ellittico-convesso tipo E ed EV, dall'altro le barchette con scafo del tipo V, che a loro volta mostrano qualche affinità con le navi del tipo C.
Le barchette ellittiche presentano spesso protomi prodiere di maggiori dimensioni, le colombelle, le sospensioni ad albero e a semialbero, il gavone prodiero. Gli scafi del tipo V si distinguono, oltre che per la foggia, per la presenza di costolature a rilievo sulle mura, protomi prodiere solitamente piccole, manici a ponte spesso con decorazioni e talora in forma di giogo bovino, peducci di sostegno, l'assenza di colombella sull'anello di sospensione e, talvolta, presenza dell'anellino sul bordo sinistro.
Lo scafo cuoriforme del tipo C, presenta anch’esso l'anellino sinistro e una piccola protome con lungo collo orizzontale. Le differenti forme degli scafi, ma anche il differente gusto decorativo per la foggia delle protomi, per l'alberatura e per la presenza di importanti dettagli nautici, deve farci ritenere che proprio gli scafi angolosi del tipo V, più di quelli ellittici, possono rappresentare vere e proprie riproduzioni di imbarcazioni d'uso locale, per brevi spostamenti, di piccolo cabotaggio.
Notiamo quindi delle tipologie parallele fra gli scafi, non un unico percorso evolutivo, da semplici scafi cuoriformi alle navicelle più elaborate, forse una tradizione di barche forestiere, dapprima soltanto osservate, in seguito forse anche imitate dalla cantieristica isolana. Cantieristica che doveva peraltro essere limitata dalla qualità e quantità dei materiali.
Mancavano in Sardegna alberi alti fino a 40 metri, come i grandi cedri del Libano, indispensabili per costruire lunghe e solide chiglie, remi, alberature, ma si sarebbero potuti utilizzare i pini mediterranei, le querce o i cipressi. Non c'era il bitume che consentiva di calafatare e rendere impermeabili gli scafi, il fasciame, i legni e le pelli, ma anche per questo materiale si potrebbe pensare a una sostituzione con delle resine naturali. Inoltre, c'erano terre e isole vicine con le quali intessere quella fitta rete di traffici e collegamenti marittimi, non limitati a contatti occasionali o stagionali, che trasformò gli antichi uomini di Sardegna da naviganti in navigatori.
E navigatori si diventa, attrezzando porti, cantieri di costruzione, rimessaggio e manutenzione, elaborando un'astronomia e una cartografia, lasciando tracce del proprio passaggio nelle testimonianze dei popoli vicini. Ciò che lascia perplessi, di fronte a tanta profusione di reperti, è la quasi assoluta mancanza, nei bronzi, dei mezzi di governo: vele, timoni, remi, scalmi, mostrati invece con tanto rilievo nelle raffigurazioni marinare di altre civiltà; e poi l'assenza, nei dipinti ma non nelle sculture, di strumenti di offesa e difesa: rostri, rinforzi, scudi, imprescindibili per la navigazione d'altura. Armare una nave significa dotarla degli armamenti necessari per affrontare coscientemente i pericoli, non sempre e solo naturali, del mare. Tutte le antiche civiltà mediterranee conoscevano la nave rostrata, che invece pare assente nei modelli sardi. Occorrerà forse allora riconsiderare, fra i due estremi che vogliono le antiche genti sarde ora un popolo di montanari legato alla terra, ora un popolo di temuti dominatori dei mari, il ricco ventaglio delle possibilità intermedie, tra le quali certamente trova luogo anche l'ipotesi di una cantieristica locale in grado di costruire imbarcazioni adatte per gli spostamenti in acque interne, per il piccolo cabotaggio, per il trasbordo e traghettamento delle merci e, probabilmente, attrezzate militarmente per la difesa delle coste. Sono proponibili, inoltre, viaggi avventurosi che videro gli uomini dei nuraghi allontanarsi su navi di tal fatta dal continente Sardegna, con quella frequenza e quella regolarità che sole possono stimolare lo sviluppo delle arti e delle tecniche marinaresche. Resta aperta l’ipotesi che le navi più grandi fossero costruite in vari cantieri del Mediterraneo, con maestranze provenienti da tutto il Mediterraneo e, soprattutto, con gli alti fusti del Libano e i vari materiali occorrenti, opportunamente scambiati con altre merci. Un anticipo, dunque, di quella globalizzazione di merci e uomini alla quale assistiamo nei nostri giorni.
Da tempo ipotizzo che i committenti volessero racchiudere nella navicella un simbolismo fortissimo. Desideravano evidenziare le loro conoscenze, e il relativo dominio, sui 4 elementi del cosmo: terra, aria, acqua e fuoco. La terra con la riproduzione di nuraghi e animali; l’aria con gli uccelli e la colombella; l’acqua con lo scafo e il fuoco con il processo di fusione del bronzo. Se ipotizziamo l’uso come lucerne si aggiunge un altro fattore: lo stoppino acceso si troverebbe a poppa, costituendo il quarto punto cardinale a formare nord (colombella), sud (scafo), ovest (protome), est (fiamma). Una vera e propria cosmografia racchiusa in un unico oggetto prezioso.








Tutte le navicelle sono tratte dal libro "Le navicelle bronzee nuragiche". Citazioni e bibliografia si trovano direttamente nel libro.


Nell'ordine, dall'alto verso il basso:







Navicella di Costa Nighedda (Oliena)







Navicella n° 76 rinvenuta in Ogliastra (Lilliu n° 278)








Navicella n° 62 da Posada (Lilliu n° 279)









Navicella n° 17 da Mores (Lilliu n° 290)










Navicella n° 110 del tempio di Hera Lacinia (Capo Colonna) a Crotone

6 commenti:

  1. Egregio dott.Pierluigi Montalbano
    Scrivo per esprimere un personale parere che non ha la pretesa,come già da me medesimo asserito più volte,di risolvere la questione od imporre la mia visione delle cose.
    In riferimento ai bronzetti figurati del precedente articolo Lei é del parere che essi rappresentino figure di divinità e di eroi. Ebbene a mio modesto avviso se é accettabile l aspetto eroico dei bronzetti figurati non si può dire lo stesso per quello sacro degli stessi...e le spiego subito il perché...presso le civiltà dell italia antica i bronzetti raffigurano sempre l offerente e mai la divinità in quanto la divinità non deve essere rappresentata trattandosi di entità soprannaturali. Tutto ciò è evidente nella bronzistica isolana dove le figure rappresentano offerenti maschili e femminili e devoti in atto di preghiera con mano destra sollevata e bocca semiaperta ad intonare preghiere.
    Sono rappresentati inoltre guerrieri e capi ammantati, comprese sacerdotesse.
    Questo é vero anche presso la civiltà etrusca dove nei bronzetti vi é riferimento al devoto e ad azioni quotidiane quali danze attorno ad animali totemici svolti in totale autonomia ed a guerrieri ugualmente nudi che però sfoggiano i segni del potere, come elmi villanoviani, lance e piccoli scudi tondi..vedasi la statuetta in bronzo di statuetta di guerriero nuda con elmo villanoviano ed itifallico esposto presso il museo di Bologna.
    É vero che appaiano anche figure femminili nude nelle quali gli studiosi vi hanno riconosciuto da tempo figure di divinità ed esseri soprannaturali, come quelle che appaiono di frequenza nei bassorilievo arcaici di Tarquinia ma qui non siamo davanti ad ex voto ma ad arredi sacri quindi altra categorie di manufatti.
    Ho concluso.
    Ignazio per lo spazio concessomi e se vorrà pubblicare tutto ció.
    Mirko Manca
    Sassari

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  2. Buongiorno Mirko e grazie per le riflessioni che hai proposto. Che dire, ad esempio, delle statuette di donne che hanno il figlio in braccio (figlio adulto e non bimbo)? Non sono esse raffigurazioni di divinità, vista anche la loro dimensione rispetto alla figura maschile? E gli animali? Come possono essere considerati offerenti? E i piccoli nuraghi? Naturalmente fra i bronzi figurati ci sono anche gli offerenti, ma nella mia personale analisi ho proposto che anche le divinità sarde fossero rappresentate, dalla Dea Madre (la divinità principale) a quelli che alcuni considerano sacerdoti.

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  3. Egregio dott.Pierluigi Montalbano
    É sempre Mirko che scrive.
    Nel caso delle figure femminili con figlio ( adulto o infante) in braccio, ci sono da fare alcune precisazioni.
    Se ci si riferisce alla Campania, nella suddetta regione compaiono le cosiddette "madri" di Capua provenienti dal fondo Patturelli; in questo caso, considerando la stessa iconografia di figura femminile con bimbo in fasce o più bimbi in fasce, ci troviamo di fronte ad ex voto pertinenti ad un vicino santuario, e siamo nell ambito del V e IV secolo a.C.
    Altro caso é la raffigurazione della cosiddetta potnia theron ossia signora degli animali ma siamo sempre in Campania ed in Etruria ma non in Sardegna.
    Nel caso della Sardegna , abbiamo la bellissima statuetta di dea madre di cuccuru is arrius...bellissima nella realizzazione ed anche dal punto di vista del gusto artistico, il ché la dice lunga circa il senso artistico delle popolazioni isolane della preistoria, senza contare gli altri manufatti con la medesima iconografia nelle quali ( in questo caso correttamente ed a ragione ) , gli studiosi ci hanno riconosciuto epifanie divine, vere e proprie dee.
    In ambito nuragico, figure di divinità (forse) femminili possono essere riconosciute nei betili "oraggiana" noti per Mont e Prima e per altre zone dell isola medesima.
    Nella bronzistica figurata non si potrebbe dire altrettanto perché esse si rifanno alla concretezza della vita quotidiana dal momento che sono ex voto da deporre in santuari, e che a maggior ragione raffigurano gli offerenti stessi.

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  4. Nel caso delle figure femminili della bronzistica figurata nuragica alle quali Lei , mi pare, faccia riferimento abbiamo due bellissime figure femminili, la prima, proveniente da Sa Do u e S Orcu di Urzulei, vestita completamente, seduta su di uno sgabello e con adulto (guerriero ) defunto ( i piedini del guerriero sono verso il basso e le braccia cascanti, senza vita) con pugnale ad elsa gammata al petto , simbolo di potere e berretto in testa che ritroviamo nelle teste dei capitribù di Monte Arcosu Uta , Serri e Fluminimaggiore Antas, e per questo paragonata alla faosa scultura di Francesco Chiusa conosciuta come " la madre dell ucciso" proprio perché in quanto ex voto pare!chiedere non grazia per la guarigione del figlio malato (dato che é morto ) , ma vendetta alla divinità stessa. Nella seconda statua proveniente( guardacaso ) dal santuario nuragico federale di Santa Vittoria di Serri, invece le cose sono diverse in quanto la figura femminile é sempre seduta su sgabello ma é a seno nudo e pare sia intenta ad allattare il piccolo che tiene fra le braccia che é invece vivo ( il braccino destro del piccolo é in movimento ed il capo dello stesso rivolto verso la madre) e trattandosi di un bambino bisognoso di cure ( il bambino é magrolino forse rachitico dovuto forse ad un momento di crisi nell isola dovuto a siccità e carestie motivo per cui queste voto vengono!deposti in pozzi sacri dove era venerato il prezioso liquido!!) siamo di fronte sempre ad un ex voto offerto dalla stessa madre ivi raffigurata per chiedere la grazia di una pronta guarigione alla divinità stessa...ergo non ci troviamo davanti alla raffigurazione di divinità ma di offerenti.
    Con il tempo le divinità troveranno una più precisa raffigurazione tenendo presente che nella civiltà etrusca compaiono fin dalla prima età del ferro figure femminili nude nelle quali gli studiosi ,come più sopra esposto , ci hanno riconosciuto divinitã, ma qui siamo in tutti altra area geografica, in Sardegna ,almeno per il momento pare che ciò non accada, le divinità pare non trovare raffigurazione alcuna ( lasciando da parte la statua del Sardus Pater in fittile che é pertinente all epoca romana ed alla testa di guerriero filisteo da Decimoputzu che potrebbe benissimo raffigurare un guerriero filisteo o elamita comunque non un essere soprannaturale, tralasciamo anche le raffigurazioni di demoni con quattro braccia e quattro occhi che raffigurano la rappresentazione non di esseri soprannturali ma bensí di guerrieri con maschera e braccia in legno posticci e pertinenti a qualche rito di passaggio o la raffigurazione di un qualche attore che veste i panni teatrali di qualche eroe mitologico nuragico od orientale rielaborato in occasione di giochi sacri cruenti che dovevano svolgersi nei santuari dell acqua stessi ( sono stati infatti rinvenuti nel santuario nuragico di Teti Abini)lasciamo anche perdere le figure divini maschili e femminili i età classica dove il Pantheon é ormai già ben sviluppato .
    Con ciò avrei concluso.
    Spero che pubblichi quanto scritto.
    Non vuole essere una polemica ma uno scambio di opinioni spero perciò di non averla infastidita ulteriormente.
    Mirko Manca

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  5. Logicamente gli animali non sono offerenti ed anche qui le cose sono differenziano in base alla raffigurazione in quanto l animale può assumere l aspetto di bestia ( vedasi il minotauro di Nule con protome umana) pertinente alla sfera mitologica ...o il pastore con capro sulle spalle , questo si offerente e non divinità...ad animale inteso come vittima e preda...raffigurazione di a volpi infilzati in spade o azzannare da cani come nella bellissima raffigurazione ancora da un santuario dell'acqua , il pozzo sacro di Santa Vittoria di Serri...animali raffigurati come simbolo di prosperità e benessere vedasi il grasso bovide forse bufalo con individuo sul dorso con calotta alla egiziana da Nulvi Nuraghe Orku...o animali intesi come mezzi da lavoro...vedasi le tante raffigurazioni di buoi aggiogati ,e la bellissima raffigurazione posta sopra ad un imbarcazione con bifolco, con collo taurino, trecce che prende per le corna uno dei due buoi aggiogati in quanto intento al faticoso lavoro dei campi cioè alla aratura...si tratta di molteplici raffigurazioni di animali...si tratta però sempre di ex voto ma mai di figure divine..si fa riferimento sempre alla dura concretezza della vita dell epoca...ma mai ad alcuna figura divina.
    Saluti .

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  6. Le madri con la figura maschile in braccio (viva e mai morta) siedono su un trono identico a quello in pietra del nuraghe Palmavera. Per quanto riguarda gli offerenti, preferisco un'altra versione: per me si tratta di figure ben precise da ricollegare a un rito misterico, comparabile a quello che noi oggi rappresentiamo nel presepe. Purtroppo ci manca la chiave di lettura, ma se pensiamo alle attuali statue dei santi cristiani con i loro simboli possiamo facilmente vedere nei bronzetti delle divinità secondarie "intercessori" verso la Dea Madre, la principale fra tutte. Naturalmente stiamo approfondendo un campo in cui é assai difficile centrare la verità.

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