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mercoledì 3 maggio 2017

Archeologia, Archeoastronomia e navigazione. Fenici e Greci: La misura del tempo. Riflessioni di Alfonso Stiglitz

Archeologia, Archeoastronomia e navigazione. Fenici e Greci:  La misura del tempo.
Riflessioni di Alfonso Stiglitz

 “parva Cynosura. Hac fidunt duce nocturna Phoenices in alto”.
Archeologia e astronomia, una navigazione oltre l’orizzonte. Gli uomini hanno delle stelle che non sono le stesse. Per gli uni, quelli che viaggiano, le stelle sono delle guide. Per altri non sono che delle piccole luci. Per altri, che sono dei sapienti, sono dei problemi.
(Antoine de Saint-Exupéry, Il piccolo principe)

L'intervento è indirizzato a valutare il rapporto tra il discorso archeologico e quello archeoastronomico dal punto di vista di un archeologo; valutazione applicata, in particolare, al mio ambito disciplinare legato al I millennio a.C. e alla cultura fenicia in Sardegna. Apparentemente, in quest'ambito, non c'è rapporto tra archeologia e archeoastronomia visto che quest'ultima, per lo meno in Sardegna, ha come tema pressoché esclusivo l'ipogeismo preistorico, il megalitismo e i nuraghi, quasi che la storia dell'isola non vada oltre quest'ultima fase. Ritengo, invece, che gli spazi per un rapporto proficuo ci siano, anche oltre il II millennio a.C. Che i Fenici abbiano a che fare con l'astronomia è persino banale ricordarlo: per Plinio il Vecchio «Il popolo stesso dei Fenici gode grande fama per aver inventato le scienze astronomiche» (Naturalis Historia V, 67). È ovvio che si tratta di una esagerazione, ogni gruppo sociale in ogni epoca, dalle
più lontane alle più vicine, si è inventato la propria lettura del cielo, quella che noi oggi chiamiamo astronomia, con un termine che ha significati diversi da quello degli antichi, più legato all'astrologia e senza la distinzione che noi oggi diamo ai due termini. Per gli antichi l'eccellenza dei Fenici in campo astronomico era connessa in modo particolare alla navigazione; è in questa branca che essi erano considerati maestri. Ovviamente, quando parliamo di navigazione astronomica usiamo un termine che nel significato moderno è fuorviante, in realtà non eseguivano una vera e propria 'navigazione astronomica', impossibile all'epoca, ma usavano gli astri (sole, luna e stelle) per orientarsi e per valutare il trascorre del tempo, non certo per stabilire dove si trovassero nel mare o quanto mancava a raggiungere la destinazione: non esistevano ancora, infatti, gli strumenti adatti per determinare astronomicamente la posizione dell'imbarcazione e per questo, ad esempio, utilizzavano gli uccelli, secondo un metodo reso noto dal racconto di Noè nella Bibbia (Genesi 8, 6-12). In quest'ottica si inserisce la citazione del titolo di questo lavoro, tratta da Cicerone, che definisce la caratteristica del pensiero astronomico fenicio applicato alla navigazione: «L’Orsa Minore a cui s'affidano, come guida di notte, i Fenici in alto mare» (Cicerone, Academici, XX). Plinio
precisa che «l'osservazione delle stelle durante la navigazione fu introdotta dei Fenici» (Naturalis Historia VII, 208) e Strabone parla del suo uso durante la navigazione notturna (Geographika XVI, 23-24); ancora, Manilio ci assicura che l'Orsa Minore «è guida più sicura per i Cartaginesi quando cercano la terra che dal mare non appare» (Astronomica I, 294-302). La caratteristica navigazione fenicia era, infatti, quella di altura, in luoghi nei quali non si hanno riferimenti concreti, non ci sono terre in vista e bisogna navigare guardando oltre l'orizzonte, con l'aiuto del sole di giorno e delle stelle di notte. Il rinvenimento di due relitti a grande profondità al largo delle coste israeliane , databili all’VIII sec. a.C. (Le datazioni utilizzate in questo testo sono quelle convenzionali, a causa dell'assenza, ancora, di un quadro ampio e credibile di datazioni al C14 calibrato, per l'intero ambito qui analizzato.) , conferma il dato delle fonti antiche. È noto che per gli antichi esisteva una differenza fra i Greci che si orientavano sull'Orsa maggiore e i Fenici su quella minore, che era chiamata Fenice, perché questa rimane circumpolare anche a latitudini più meridionali rispetto all'Orsa maggiore. Questo fatto si ricollega al problema dei grandi viaggi di esplorazione intrapresi, ad esempio, lungo le coste dell'Africa e resi possibili dall'osservazione dell'Orsa minore che assicurava, così, il ritorno verso mari conosciuti, anche se è in discussione la realtà di quei viaggi. Ho portato questo primo esempio dell'uso degli orientamenti per la navigazione, perché concerne uno dei problemi del rapporto tra archeologia e astronomia; il fatto, cioè, che l'osservazione del cielo abbia una pluralità di valori e di fondamenti. Apparentemente, in questo caso, si può pensare a un uso 'profano', civile, dell’orientamento; spesso e volentieri, infatti, in campo archeoastronomico, ma talvolta anche in quello archeologico, c’è la tendenza a considerare il campo religioso come a sé stante quasi che, effettivamente, nell’antichità esistesse una distinzione netta religioso/profano, che è invece invenzione moderna. In realtà non è così e, infatti, anche nel caso della navigazione, le stelle non erano considerate come astri, realtà meramente fisiche come li intendiamo oggi, ma erano parte integrante di una visione astrologica della vita: erano cioè dotate di qualità immateriali. Per questo la navigazione presso i Fenici, ma anche presso i Greci, soprattutto quella a lunga distanza, è strettamente connessa con la divinità e con il tempio; è Melqart, il Bac al di Tiro, che insegna ai Fenici l’arte della navigazione per raggiungere le isole in mezzo al mare e per fondarvi centri ed è il suo tempio che guida i viaggi e ne riceve le offerte. Sono i santuari, di Melqart e di Astarte presso i Fenici, i luoghi nei quali si recano i naviganti e dove ricevono non solo la benedizione del dio, ma anche le conoscenze necessarie per raggiungere i posti lontani: i templi avevano, infatti, anche la funzione di accumulazione del sapere astronomico e di trasmissione dello stesso. Non a caso Posidonio per le sue osservazioni astronomiche solstiziali si reca a Cadice, nel celebre santuario di Melqart, l'Herakleion per i greci (Strabone, Geographica III, 5, 9). Una delle tendenze diffuse nell’archeoastronomia è quella di collegare l’orientamento di un edificio con la sua valenza sacra, o meglio, religiosa, sovrapponendo, identificandoli, i concetti di sacro e di religioso, estrapolandoli dalla realtà concreta e trasformandoli in
spazi a sé stanti e distinti da quelli profani: per cui un edificio orientato è di per sé un edificio sacro e, conseguentemente, religioso. Già da tempo gli storici delle religioni ci hanno messo in guardia da quest'uso disinvolto di termini nel loro assunto moderno trasferito al mondo antico:

l'impiego che del "sacro" è stato fatto dai fenomenologi lo ha fatto coincidere con il "religioso" (con il nostro religioso), trascinandolo al di fuori del suo contesto storico e fissandolo in un universo statico di categorie a priori che non ha alcuna rilevanza in sede storica […] nessun problema, dunque, nel continuare a usare questo strumento, anche in relazione allo spazio o al territorio, a patto che si privilegino le funzionalità (rispetto alle morfologie) attribuite di volta in volta a questi spazi e/o territori nelle varie culture.

In realtà non esiste un orientamento costante dei luoghi di culto, ciò non significa, ovviamente, che non esista un orientamento di quegli edifici: la natura del sito, la sua sacralità, è manifestata da un insieme di elementi (comprendenti la forma, la presenza di arredi di culto, di eventuali elementi epigrafici) e quindi la sua realizzazione doveva avere complesse stratificazioni ideologiche, tra le quali ovviamente hanno un posto importante le connessioni astrologiche. Il procedere delle ricerche ha precisato questa visione come mostrano gli esempi sardi a partire da Nora, che ha restituito la più antica citazione di un tempio nella nota stele databile al IX-VIII sec. a.C.; purtroppo le modalità del rinvenimento della stele, avvenuto nel XVIII sec., non ci permettono di sapere quale fosse il tempio nel quale era collocata la dedica a Pmy, la divinità citata nell'iscrizione. Il più antico edificio fenicio con valenza cultuale di Nora e, attualmente, il più antico in Sardegna, a parte i tophet, è quello del Coltellazzo, databile al VI sec. a.C.; si tratta di una sorta di alto luogo, una terrazza sopraelevata, con un orientamento E-W, con accesso gradonato a Est. Il secondo edificio templare, databile al V sec. a.C., è quello di punta Su Coloru, caratterizzato da una serie di recinti che avevano come fulcro un naos, l’ingresso doveva essere a nord e la cappella a sud nel punto più alto della leggera collina, di cui resta il famoso coronamento con gli urei, che ha un preciso riscontro nel santuario di Amrit, nel territorio di Arwad, la più settentrionale delle città fenicie oggi in territorio siriano. Il terzo luogo di culto della città sulcitana, meno definito per ora, è il c.d. alto luogo di Tanit, databile anch'esso al V sec. a.C., in questo caso l'edificio è orientato secondo gli angoli. Di esso conosciamo quella che, probabilmente, era la pietra di culto, di forma piramidale. Quindi all’interno della stessa città, nella stessa fase culturale, sono presenti tre differenti orientamenti dei luoghi di culto. A Tharros, l’esempio più evidente è il tempio monumentale, caratterizzato dalle semicolonne doriche, scavato nella roccia con andamento a gradoni secondo un orientamento SE-NW15. In questo caso l'orientamento è strettamente collegato all’andamento della collina e, conseguentemente, all’organizzazione spaziale urbanistica della città; resta da chiedersi se il suo posizionamento, con questo orientamento determinato dalla morfologia, sia stato l’elemento cardine per la pianificazione urbanistica o se, viceversa, sia stata quest’ultima a determinarne il posizionamento. Questi esempi ci fanno pensare che l’orientamento di un edificio non è il dato esclusivo che ci permette di valutarne la natura, il significato o la funzione: ogni singolo orientamento ed edificio vanno valutati individualmente. In altre parole, non è l’orientamento che rende religioso un edificio, ma è il significato culturale che a quell’edificio dà il gruppo sociale che lo realizza e che lo localizza in quella specifica funzione, secondo un complesso sistema di lettura del paesaggio nel quale l’orientamento è una delle componenti. Quest'ultimo va richiamato luogo per luogo e, all'interno dello stesso luogo, monumento per monumento, cercando non leggi statistiche astratte, apparentemente inoppugnabili, ma poco rispettose della realtà complessa della mentalità antica. Per questo è fondamentale lo studio degli elementi astrologici presenti nei luoghi di culto: l'esempio più importante è quello dei tophet, santuari peculiari destinati alle offerte secondo uno specifico rituale che appare legato all'ambito fertilistico: le analisi paleozoologiche e paleobotaniche, ad esempio nel tophet di Tharros, mostrano come le offerte (umane o animali) avvenissero in primavera. L'elemento di sicuro interesse archeoastronomico, in questo caso, non è l'orientamento ma la diffusione dei simboli astrali, quale il crescente lunare posizionato sopra o sotto il disco solare, la stretta connessione con la dea Tanit e altri elementi, ma per questi aspetti sarebbe necessario uno studio specifico che esula dagli spazi del presente intervento. L'ultimo esempio è quello delle strutture funerarie. Uno dei rari studi archeoastronomici, per lo meno in Sardegna, dedicati al mondo del primo millennio e dei Fenici in particolare, è dedicato all'orientamento delle tombe ipogeiche puniche. Lo studio prende in considerazione sei necropoli sarde e tre di Ibiza, nelle quali è stata misurata

the orientation of the entrance to the hypogeum (and the inclination where it was possible), and we have yielded distributions of azimuth and declination for the different sites.

Per la Sardegna sono state analizzate le necropoli di Cagliari, Tharros, Sant'Antioco, Monte Sirai, Senorbì (Monte Luna) e Villamar. Dalla documentazione prodotta gli autori concludono che l’orientamento dell’entrata delle tombe può avere importanza nella loro costruzione e può essere legata a importanti festività del calendario feniciopunico. I risultati dello studio degli orientamenti in realtà sono un po' più complessi visto che, secondo gli autori, a Cagliari, Senorbì e Monte Sirai le tombe hanno un orientamento prevalente verso SW, a Tharros e, in parte, a Sant'Antioco verso NE mentre a Villamar non vi sarebbe una chiara concentrazione di orientamenti . Per un archeologo, questo studio ha scarso interesse e lo porto qui come esempio perché mostra una strada dell’archeoastronomia nella quale il dialogo con l’archeologia rischia di essere poco produttivo e perché dà l’idea di una autosufficienza dell’archeoastronomia, che attraverso delle misurazioni scientificamente affidabili, possa dare di per sé la soluzione a problemi di carattere specificamente sociale, culturale e antropologico. Già la composizione del gruppo di studio, con tre astronomi e un archeoastronomo, totalmente digiuni della materia archeologica oggetto dello studio, lascia perplessi, così come la genericità dell'indicazione del campione di studio, che si rende palese, ad esempio, nel fornire misurazioni fatte a Tharros senza specificare a quale delle due necropoli (settentrionale o meridionale) si riferiscano e le carenti indicazioni bibliografiche, nelle quali si nota l’assenza di studi specifici sulle necropoli analizzate. Le tombe vengono trattate come meri edifici, avulse dalla società che le ha realizzate e dalle sue concezioni funerarie e considerate in modo totalmente indipendente dal contesto topografico e urbanistico nel quale sono collocate. Un’analisi concreta delle singole necropoli che non si limiti a prendere delle misurazioni mostra, invece, una serie di elementi che concorrono all’orientamento delle tombe, in funzione delle necessità di quei gruppi sociali che vivevano nelle città prese in considerazione, tra la fine del VI e il III sec. a.C., e che possiamo sinteticamente elencare:
- La relazione stretta tra città e necropoli, per la quale si può evidenziare un rapporto di contiguità, su differenti spazi e la intervisibilità reciproca, particolarmente evidente nelle città sarde.
- L’andamento delle tombe in relazione alla morfologia del terreno, che vale per tutte le necropoli puniche, comprese quelle non sarde. Le tombe si compongono seguendo l’orientamento del pendio, in modo da avere la camera a monte e il pozzo o il dromos a valle; ciò semplificava il lavoro e, soprattutto, permetteva l'organizzazione razionale dello spazio. Infatti, una necropoli non è un agglomerato indistinto di tombe, ma è uno spazio urbanisticamente razionale, complesso, meditato e misurato; le tombe sono realizzate per agglomerati, da connettersi a gruppi sociali o familiari; la vicinanza è tanto importante per la collocazione delle tombe che quando lo spazio di quel gruppo diviene completo, nonostante altrove vi siano altri spazi liberi, ci si ostina a costruire nuove tombe nello spazio divenuto ormai angusto, variando drasticamente l’orientamento pur di non perdere la vicinanza.
- In certe necropoli il posizionamento sembra avere un andamento radiale rispetto alla collina nella quale sorgono con andamento cronologico, nel senso che le tombe più antiche sono vicine al centro abitato: lo si nota a Cagliari ad esempio.
- La scelta della tipologia dell'ingresso, dromos/pozzo non è dovuta come ritengono gli autori alla necessità di ottimizzare lo spazio ma si deve a precise volontà culturali delle singole comunità, così, per limitarci alle necropoli sarde citate nel testo, a Sant'Antioco si realizza il dromos, che viene utilizzato anche nella città satellite di Monte Sirai mentre a Cagliari si opta per il pozzo, come a Cartagine, e come faranno le città satelliti di Santu Teru/Monte Luna e Villamar. A Tharros, dove sono presenti due necropoli come a Cagliari, la tipologia prevalente è quella a dromos con stretta scalinata. Anche nel caso delle aree funerarie credo che, da un punto di vista archeoastronomico, per l’archeologia sia più interessante il discorso sui simboli astrali presenti nelle tombe, indice di una visione astrologica che si connette con il rapporto con l’altra vita. Pensiamo alla presenza di segni di Tanit e di segni astrali all'interno delle tombe, utili al morto nel suo viaggio e per i quali l'orientamento è probabilmente legato a un altro spazio, quello relativo alla vita al di là del mondo fisico. Il ritrovamento, poi, a M. Sirai di un "segno di TNT" rovesciato, ci obbliga a trovare altre dimensioni geografiche che le mere misurazioni astronomiche da sole non bastano a farci scoprire. Conclusioni
Uno dei grandi problemi del rapporto, del dialogo tra archeologi e astronomi, sta nell'equivocità del termine e del concetto di orientamento e, in particolare, il presupposto che orientamento sia uguale a struttura religiosa. L'orientamento calcolato sulla base dei solstizi o dell’azimuth è solo uno degli aspetti che servono a definire uno spazio geografico e, spesso, non è determinante, perlomeno non lo è quello misurato, quanto quello percepito nella mente del gruppo sociale del quale indaghiamo, a prescindere dal mero fatto fisico astronomico. La trasmissione diretta di questo termine tra astronomia e archeologia, è frutto del grande equivoco di ritenere che esso abbia lo stesso significato nei due campi. Se in quello astronomico è di univoca definizione, con l'uso degli strumenti di misurazione (dalla semplice bussola ai più sofisticati GPS) per ottenere un valore che è, appunto, univoco; nel campo storico-culturale questo è più complesso, soprattutto se cerchiamo di dare spiegazioni sul motivo di quell'orientamento senza dare per scontata l'idea che avesse un significato per i costruttori o i progettisti dell'epoca identico a quello che gli diamo noi. In un suo lavoro recente Juan Antonio Belmonte Avilés reclama un ruolo proprio dell'archeoastronomia, non più branca dell'astrofisica moderna ma parte integrante degli studi antropologici

la arqueoastronomía es una especialidad que se enmarca de lleno en los estudios antropológicos, al servicio de disciplinas como la arqueología del paisaje (en el sentido totalizador del término paisaje), la historia de las religiones o, lo que viene a ser casi lo mismo, la arqueología del poder.

Il problema sta nella pratica di questi assunti di per sé condivisibili; Belmonte, infatti, precisa che l'archeoastronomo deve essere interdisciplinare con una approfondita conoscenza specialistica nel campo astronomico, visto che le tecniche specifiche non sono alla portata degli antropologi e degli archeologi; ma, allo stesso tempo, non dà segno di ritenere che ci sia la necessità di conoscenze altrettanto specialistiche proprie delle discipline storiche o sociali: quindi mentre un archeologo non può farsi astronomo, per ovvi motivi, l'astronomo può trasformarsi in storico. Da questo punto di vista è estremamente significativo il percorso di ricerche che lo stesso Belmonte descrive per se stesso: dalle Isole Canarie, alla Penisola Iberica, all'Africa, all'Egitto, alle isole del Mediterraneo fino all'Isola di Pasqua. Indicativo di un'idea dell'archeoastronomia come una disciplina più che interdisciplinare, asimmetrica, in cui a fronte di una profonda conoscenza specialistica nel campo astronomico corrisponde una superficiale conoscenza in quello storico, antropologico, sociale, vedi il caso delle necropoli puniche (supra). L’archeoastronomia sembra, cioè, muoversi ancora su una base pionieristica e volontaristica, in particolare in Sardegna, caratterizzata da quello che l'archeologa Luisa Cerdeño Serrano e la astrofisica Gracia Rodriguez Caderot ritengono essere un vero e proprio errore metodologico:

Los pioneros de estos estudios procedían mayoritariamente del campo de la física o de la ingeniería, su objetivo era realizar mediciones de los monumentos arqueológicos a los que consideraban contenedores de datos y, a partir de ellos, crear leyes de aplicación general, aunque faltase una mayor atención a la verdadera significación cultural de aquello que se estaba analizando.

Detto in altre parole, se un edificio è orientato, lo si deve definire attraverso precise misurazioni astronomiche, che necessitano di una conoscenza specialistica: da questo punto di vista non cambia nulla se le misurazioni le facciamo nelle Canarie, in Sardegna o nell'Isola di Pasqua, conta che siano fatte in modo scientificamente impeccabile e otterremo il corretto orientamento di quegli edifici, in termini astronomici moderni. Ma ci fermiamo lì, perché l'orientamento di ognuno di quegli edifici è frutto del comportamento culturale (nel senso ampio del termine) di un determinato gruppo sociale, che vive in un tempo specifico e non in un altro, e in uno spazio geografico preciso e non in un altro; anche questi vanno "misurati" con tecnologie specialistiche. E già questo ci permette di dire che non è la stessa cosa se le misurazioni le facciamo nelle Canarie, in Sardegna o nell'Isola di Pasqua. Qui inizia la differenza tra gli archeologi e alcune componenti dell'archeoastronomia, perché quegli orientamenti che andiamo misurando sono frutto di elaborazioni di pensiero, comportamenti, credenze che sono proprie di quel preciso gruppo sociale, in quella precisa griglia spazio-temporale. In questo senso le Canarie non sono la stessa cosa della Sardegna. Chi sia, come sia organizzato, cosa pensi, come si comporti il gruppo sociale oggetto di indagine presuppone che chi lo studia abbia delle conoscenze altamente specialistiche nel campo delle diverse discipline: archeologia, storia delle religioni, antropologia ecc. È l’assenza di griglie spazio-temporali e di tessuti culturali che tiene lontane l’archeologia e l’astronomia, al di là delle idiosincrasie dei singoli archeologi o dei singoli astronomi. In altre parole, è interessante l'assunto che l'archeoastronomia sia al servizio delle scienze storiche e antropologiche, come dice Belmonte (supra), anche se trovo più corretta e interessante la proposta di inserire l'archeoastronomia nell'archeometria, rendendo più concreto il concetto di interdisciplinarietà, che non significa una poliedrica mentalità dello studioso, ovviamente incapace come singolo di governare tutte le conoscenze specialistiche, ma la capacità di ragionare insieme e superare l'autosufficienza: l’archeologo ha già da tempo imparato a farlo con difficoltà e crisi di identità, come dimostra la collaborazione con gli specialisti delle discipline archeometriche. Aspettiamo l’archeoastronomia.

Fonte: 
Atti del 3° Congresso Internazionale di Archeoastronomia in Sardegna
13° Convegno Società Italiana di Archeoastronomia.
Cronache di Archeologia 11, 2014, pp. 35-45

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