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giovedì 2 marzo 2017

Tsìppiri, una storia d'altri tempi.

Albertina Piras              Pierluigi Montalbano                Mauro Atzei

Tsìppiri
Una storia d’altri tempi, raccontata in questi tempi
ROMANZO
Sardegna Magica



Disegni di Stefano Gesh e Paolo Valente Poddighe
Copyright 2012 - Testi, disegni, immagini, poesie sono di proprietà degli autori.
Indice:
Prologo……………………………………………………………………………………
Cap. 1°- Il regno di Momoth………………………………………………
Cap. 2°- Le navi levano l’ancora……………………………………………
Cap. 3°- Re Ormuk………………………………………………………………
Cap. 4°- Nurah, la Jana maestra…………………………………………
Cap. 5° - Le Janas…………………………………………………………
Cap. 6°- Malgib, la regina di Cartago………………………………
Cap. 7°- Dalla morte all’amore, alla guerra………………………
Cap. 8°- Incontro in Sardegna…………………………………………
Cap. 9°- Maestri del bronzo…………………………………………………
Cap. 10°- Nei sogni, la visione…………………………………………………
Cap. 11°- Lo scontro finale………………………………………………..………
Cap. 12°- Parlano i protagonisti………………………………………………
Le poesie di Leon Cavaliere del Vento………………………………………

Tutto è iniziato per gioco, sulle bacheche del gruppo di appassionati di archeologia di Facebook.
Sulla piazza virtuale che rappresenta la nostra piccola “accademia dell’arcadia (digitale)” abbiamo cominciato a scrivere questa storica vicenda tramandataci dagli storici latini.
L’abbiamo fatto per scherzare un po’ all’inizio e, forse, neanche Pierluigi che pur aveva lanciato una giocosa sfida a me e Albertina, credeva che avremmo compiuto questa piccola impresa in
una sola settimana e nei ritagli di tempo.
Alla fine dell’esperienza, tutti noi ci siamo innamorati della principessa Tsìppiri: forse ognuno di noi ha in parte sviluppato la stessa sindrome di Mastro Geppetto che s’innamora di suo figlio Pinocchio.
E’ accaduto facendo nascere e crescere questo personaggio singolare, una principessa sarda che diventa regina e che colpisce l’animo per la sua sicurezza e la sua bontà.
Buona lettura dunque, sperando che questo racconto possa cogliere i favori del vostro gusto per la storia, e per le umane passioni.
Mauro Atzei
~
Le cose sono proprio andate come dice Mauro. Se poi si aggiunge che noi tre non ci conosciamo personalmente, il quadro è completo.
Alla considerazione di Pierluigi sulla possibilità di scrivere un libro sulla battaglia navale di Alalia del 540 a.C., io avevo risposto mascherando la mia inadeguatezza con la proposta di un intreccio amoroso, dove, se non altro, mi sarei sentita alla pari.
Pierluigi sembrava perplesso, ma Mauro si era affrettato a cercarmi un ruolo che consentisse di mostrare la mia conoscenza delle erbe, delle janas e dei filtri d’amore.
La storia ha preso piede e, cammin facendo, anche Pierluigi si è alleggerito della sua robusta corazza e si è lasciato andare nel mare della magica Sardegna, alla ricerca del misterioso personaggio della principessa Tsippiri.
 Albertina Piras
~
Un caro ringraziamento ad Albertina, Mauro, Paolo e Stefano. Con le loro idee, e la loro arte, si è concretizzato questo romanzo storico. E’ la mia prima avventura letteraria non legata al metodo scientifico, ed è stata intrigante, oltre che divertente. Dedico questo scritto ai sardi e ai discendenti di quelle genti etrusche e cartaginesi che, insieme, per un attimo, hanno sognato un mondo nel quale le tradizioni non sarebbero state contaminate dai miti greci.
                                                                                           Pierluigi Montalbano


Tsìppiri
Una storia d’altri tempi raccontata in questi tempi




Prologo
Proveremo a raccontare una storia antichissima, una tradizione orale che abbiamo nel sangue e che, per questo motivo, abbiamo sempre conosciuto, anche se nessuno l’ha mai scritta. Si tratta dell'arcana leggenda che racconta l’accordo di alleanza che, nel 540 a.C., fu stipulato fra la principessa sarda Tsìppiri, la regina Malgib di Cartagine e il Re Ormuk, leader dei gruppi etruschi che controllavano le miniere di Monte Valerio e Monte Rombolo.
I tre sovrani volevano allontanare i greci dalle rotte tirreniche dopo che questi avevano scaricato le loro mercanzie nel porto di Pitecusa, minacciando l’egemonia etrusca in quei lidi.
La trama degli avvenimenti mostra la storia di un uomo, apparentemente forte, che posto di fronte al fascino irresistibile di una donna incantevole, mostrerà tutte le sue debolezze emotive: Re Ormuk. Egli s'innamorerà della principessa Tsìppiri, ammaliato dai suoi irresistibili filtri d'amore. Confuso dagli eventi, progetterà di liberarsi della regina Malgib, sua amante segreta e scomoda alleata. Per liberarsi anche dai greci, temuti rivali economici, pensa di incolparli organizzando un complotto.
E’ la storia di un intreccio d'amore: la regina Cartaginese è innamorata da tempo, segretamente ma non troppo, del re etrusco e lui, in un primo momento, cede alle lusinghe della navigata seduttrice. In seguito, con l'entrata in scena della nuova alleata, ossia la principessa sarda, i sentimenti cambiano e il re, innamorato perdutamente del nuovo astro nascente della regalità mediterranea, si trova a dover fronteggiare le emozioni, già messe in subbuglio dalle troppe cessioni fatte a Malgib, e poi a dover gestire un triumvirato d'affari con le due prime donne (oltre a dover metter d'accordo le due nobili alleate), per poi cedere definitivamente il suo cuore alla nobildonna isolana.
Tuttavia, per disimpegnarsi rapidamente dal rapporto amoroso con la regina cartaginese, rischia di compiere un atto criminale. Per staccarsi dalle grinfie della gelosissima e vendicativa regina cartaginese, intesse un'ignobile trama coinvolgendo un rinnegato nobile etrusco, passato all'esercito punico. Il progetto prevede l'assassinio dell’ignara Malgib in cambio della promessa di cedere l'isola di Plotino, ricca di stagno (promessa che si sarebbe riservato comunque di non mantenere). Mentre il re etrusco e la regina cartaginese si accordano per costituire la "bronzea alleanza" contro i focesi, la bellissima principessa Tsìppiri era incoronata regina sherden, in seguito all'abdicazione di suo padre Re Momoth. Egli si ammalò gravemente per aver erroneamente ingerito una velenosa minestra di euforbia. Fra le conseguenze della malattia, il re sardo patisce una progressiva diminuzione della vista che lo porterà alla cecità.
In occasione dell'incoronazione dalla principessa a nuova Reggente, in sardo detta Rexina, i più esperti sarti isolani furono incaricati di disegnare, e confezionare, l'abito più bello che si fosse mai visto sulla terra. Uno di quei maestri era in realtà una sarta, una marmmidhesa famosa per aver confezionato gli abiti di altre principesse e regine celebri del Mediterraneo. La sua bottega d’arte era a Mara Barbaraghesa, importante comune della Marmiddha, e costei ricevette l’incarico dalla principessa Tsìppiri in persona. Avrebbe realizzato quel sontuoso e mirabile abito, e sarebbe divenuta la sarta personale della regina.
“In dd'unu bellu canisteddu de fenu e giuncu prenu de drucis” (In un bel canestro di fieno e giunco pieno di dolci) la principessa Tsìppiri presenterà al vecchio Re, e padre, il suo messaggio d'amore e di pace, rivolto a tutti i popoli. Un messaggio di fratellanza universale, di collaborazione, senza prevaricazione, nel rispetto della dignità delle persone e dei popoli. Un messaggio che forse non si realizzerà in quel tempo, ma rimarrà sempre valido per i tempi futuri e in tutti i luoghi. Un messaggio che la società odierna, se fosse capace di fare tesoro delle drammatiche esperienze della storia, dovrebbe prendere in considerazione.
E’ ricordato come “Il messaggio della principessa Tsìppiri”. E sarà questo l’insegnamento che la terra sarda si aggiudicherà nella storia del mondo.
La figura di Tsìppiri è nobile nell’animo e nelle capacità. Scelta dal padre alla sua successione, dopo tante discussioni nelle assemblee degli anziani, e vincendo l’ostilità dei rampolli dell’aristocrazia, rappresenta un nuovo modo, tutto al femminile, di condurre e amministrare un grande territorio, in un nuovo ordine mondiale (per ciò che era il mondo conosciuto dagli occidentali di allora) spinto verso una fitta rete di alleanze mediterranee.
In questo racconto, il ruolo della giovane principessa sarà doppio: far innamorare lo straniero alleato, in virtù del suo fascino e della sua amabilità, e condurre alla ragione il suo amato, impedendogli azioni criminose.
A qualcuno, Tsìppiri potrebbe sembrare un’ammaliatrice senza scrupoli, una femmina che sfrutta i filtri d’amore e le arti occulte per conquistare i cuori, ma è bene sapere che in questa vicenda le erbe sono benefiche, emanano profumi soavi e intensi che predispongono il cuore verso pensieri sublimi, donano energia positiva che aiuta a credere che esiste la verità, la giustizia e la pace. E’ con questi sentimenti che la principessa conquisterà il Re. I filtri magici saranno utilizzati esclusivamente per allontanare dalla scena gli spiriti maligni. La grande forza della principessa sarda sarà quella di creare, in tutta la storia, una barriera di protezione con erbe aromatiche e officinali. La salute e l’amore trionferanno, confortati da immagini di fiori colorati.




Cerco un pezzo di mare,
o uno specchio d’acqua
per leggere i miei pensieri;
un po’ di pace per parlare con Dio,
un luogo sicuro per nascondere i miei segreti.
Un po’ di riposo,
un poco solo.
E poi,
tornerò
alla quotidianità
del vivere.



 Cap. 1°- Il regno di Momoth.

Chi viveva in quei tempi sull’isola sarda, conosceva il racconto orale delle gesta, del coraggio e della generosa umanità (rara in un governante) del nobile padre di Tsìppiri: Re Momoth, sovrano delle coste orientali. Figlio di Cea e Lunyox, a soli 20 anni fu re di Bha-uny e Mur-a-vra. Trascorse gran parte della sua adolescenza imbarcato sul naviglio militare. Le veloci corvette sarde scortavano e proteggevano dagli attacchi pirateschi le imbarcazioni commerciali che attraversavano le Colonne d’Ercole lungo la via marittima dello stagno, verso le ricche miniere di Cornovaglia e Bretagna. A 18 anni fu nominato comandante della flotta sarda. Uomo d'affari e di larghe vedute, discendeva dalla più nobile famiglia della Sardegna centro orientale. Una casata dedita da secoli alla bronzistica. Creavano piccole sculture di bronzo, per riti religiosi, e poderose armi per scopi bellici e di rappresentanza. Imparò in giovane età la nobile arte della fusione del bronzo, ma ben presto fu notato per le capacità di leader e per la vocazione al comando. Quest’attitudine fu accompagnata da un’insanabile passione per la navigazione e per le barche.
Il mare era la sua vera stella polare: a soli 14 anni conosceva già gran parte delle rotte che dal Mar Mediterraneo conducevano al Libano e, verso occidente, alle Colonne d'Ercole. A 21 anni, tracciò le rotte che costeggiavano l’Africa e giunse fino ai ricchi empori del Madagascar. Fornì prova di essere un grande condottiero civile. Le sue esplorazioni portarono in patria grandi quantità di stagno, forse fin dal mitico Zimbabwe, nell’Africa Equatoriale, tra il fiume Zambesi e il fiume Limpopo.
Il cibo era il suo tallone d’Achille: goloso come pochi, pur se all'epoca si desinava seduti con le ciotole sulle ginocchia, non si alzava da tavola, o dalle caratteristiche panche di pietra (ancora in alcuni villaggi nuragici), senza aver consumato almeno un chilo di crugujons (ravioli di farina di frumento e ricotta di capra) e una dozzina di padr-u-as (dolci di ricotta e zafferano, l'oro rosso dei tempi antichi). Divenuto vecchio, una volta realizzati tutti i progetti, stanco del suo ruolo, attendeva che sua figlia Tsìppiri maturasse le competenze per reggere responsabilmente il governo.


…Momoth… Disegno di Stefano Gesh

Desiderava dedicarsi alla pesca nei mari e nelle acque interne, mettendo in pratica quelle specializzazioni acquisite nei tanti anni trascorsi in mare. Realizzava personalmente le esche, le lenze e gli ami, ottenuti battendo a freddo il rame. Conosceva i veleni utilizzabili per pescare nelle acque dolci, e sapeva maneggiare la "Lua" un'erba medicamentosa, velenosa, utilizzata per l'alto potere catartico nelle cerimonie spirituali. Tuttavia, durante i riti della guarigione, praticati e condotti dal Re Momoth come da tutti i nobili del suo rango, commise un grave errore di dosaggio, rimanendone intossicato. Per tale motivo abdicò in favore di sua figlia Tsìppiri. Le circostanziate cronache dell'epoca, provenienti da ambienti di corte vicini a Re Momoth, riferiscono che il sovrano calcò volontariamente la mano sulla quantità di euforbia, con il premeditato proposito di lasciare finalmente libero il campo a sua figlia nei delicati compiti di nuova Rexina della terra di Sardegna.
Re Momoth, che ebbe come consorte Syra, regina dei monti innevati, intuì da subito le capacità sovrannaturali di Tsippirì. Ne ebbe sentore sin dal momento in cui sua madre Syra, baciandola alla nascita, si accorse immediatamente del fortissimo profumo di rosmarino che emanava. Una fragranza intensa e persistente. Syra raccontava sempre che Tsìppiri era la prediletta degli dei, e tutte le piante, i fiori e i frutti si sarebbero inchinati (metaforicamente) a lei facendosi dominare. Per questo motivo Tsippiri, crescendo, amava circondarsi di fiori profumati e di erbe aromatiche. Ben presto iniziò a realizzare i suoi profumi. Si accorse che l'olfatto è un senso che difficilmente può essere condizionato dall'intelletto. La regione olfattiva è una delle prime a svilupparsi nell'essere umano, costituendo, insieme al gusto, un sistema percettivo. Gli antichi filosofi Greci, scrissero che l'olfatto è un senso direttamente collegato all'anima: si eredita dal precedente passato ed è immortale. 
Durante i primi giochi con i suoi cugini, Tsìppiri scoprì che pestando nel mortaio le foglie della mandragora che cresceva intorno alla sua casa, otteneva un unguento con cui poteva profumarsi il collo, con la conseguenza che i bambini più violenti, durante i giochi da "maschiacci", le stavano alla larga. Neppure loro si capacitavano di questa proprietà aromatica: si sentivano immobilizzati, come se una grande mano invisibile li tenesse lontani da lei.




  
I nostri antichi padri
hanno steso i fili dell'ordito
e il tempo li ha intessuti
costruendo la civiltà.
Una generazione all'altra
passa la voce
nel tempo che scorre.
Qualche volta il filo si spezza...
Peccato...
Ma il tempo è galantuomo,
cucirà tutti gli strappi
e linfa nuova farà scorrere
sui nuovi virgulti.
E l'albero rinverdirà
nella nuova stagione
di un'umanità rinnovata.



Cap 2°- Le navi levano l’ancora. 

Sulle navi nuragiche c'è grande fermento. I marinai, i carpentieri, i calafati, i rematori e gli addetti alla cambusa sono impegnati nella preparazione del viaggio. Salpati da Tharros all'inizio della primavera, dopo 4 mesi di viaggio attraverso i porti di tutto il Mediterraneo, si preparano a fare rientro in patria con le stive piene di mercanzie pregiate. Hanno scelto i prodotti più pregiati d’Oriente: sostanze balsamiche, spezie, avori, vetro, ambra, stoffe e…idee.
Una leggera brezza dirada la nebbia che avvolge Kommos, il porto di Creta. La città si prepara a salutare quei giovani sardi che, come ogni marinaio che si rispetti, promettono romantici momenti da celebrare con l’amata al prossimo sbarco, la stagione successiva. In questo luogo, tra terra e mare, confluiscono le rotte dei popoli che frequentano il Mediterraneo. S’incontrano gli uomini che scambiano le tecnologie e i prodotti della loro terra e del loro ingegno. Arrivando dal mare, i viaggiatori vedono svettare il palazzo del re con i suoi favolosi giardini. Il litorale è fitto di magazzini per le merci e di moli, nei quali sono ormeggiate le navi mercantili. Alla città si accede attraverso le numerose porte che conducono ai mercatini, sistemati nelle viuzze che attraversano il borgo. I negozi sono raggruppati secondo la merce che vi si vende. Stoffe, sete, pellami, mobili e armi. Nei pressi del palazzo del re si trovano i contabili e gli addetti al peso dei metalli da scambiare. Appongono sigilli ai contratti, e incidono segni ponderali sui lingotti per registrare il peso.
Dall’epoca del mitico Minosse, Re di Creta, i mercanti frequentano liberamente l'emporio più importante del Mediterraneo Orientale, dove si scambia, si compra o si vende. Gli amministratori locali sono ricchissimi e dettano le condizioni doganali. Si possono acquistare le merci provenienti dal favoloso Oriente, e introdurre verso il mercato asiatico i prodotti esotici che giungono dall’Africa. Le navi che solcano il Mediterraneo sono realizzate col denaro degli armatori, ed è tra questi che sono scelti i governanti. Si tratta di grandi imbarcazioni internazionali, con equipaggio multietnico e componentistica nautica proveniente da tutto il mondo.
Fra i membri dell’equipaggio, i nocchieri sono marinai esperti, tenuti in alta considerazione per le loro competenze. Hanno il compito di razionalizzare e custodire il materiale di consumo e i finimenti vari per la vita a bordo. Gli addetti al controllo delle barche, i funzionari doganali, iniziano dai banchi dei rematori. Verificano lo stato d’usura dei legni, dei remi e della timoneria. Controllano il cordame per le manovre di attracco, e il numero di uomini che vogherà durante il viaggio. I funzionari sono particolarmente attenti alla registrazione del carico al fine di riscuotere le tasse sulle merci.
Il personale di bordo varia a ogni porto, e solo i più fidati conoscono i luoghi di destinazione definitivi. Il segreto della provenienza delle merci deve essere tutelato da personaggi senza scrupoli che potrebbero compromettere i meccanismi di scambio.
La merce più pregiata per chi si avventura in mare è l’acqua potabile. Le stive contengono risorse sufficienti per almeno tre giorni di navigazione, e le anfore sono controllate con cura, e ripristinate, a ogni sbarco.
Vele, vettovaglie, armi, strumenti di bordo e zavorra sono verificate personalmente dal comandante.
Tutto è pronto…un lungo fischio accompagna il distacco della nave dalla banchina. Il personale è schierato sul ponte, e saluta compostamente il molo brulicante di giovani donne piangenti. Il sole è quasi tramontato, e sospinto dal vento, il vascello fila diritto verso un nuovo porto.





Il sole,
nello splendore del suo sorgere,
dirada la nebbia
e ogni cosa appare
con nitida chiarezza.
Magico è il momento in cui
emerge come da nebulosa
la specificità di una persona,
e l'estraneo diventa amico,
fratello, compagno di volo.


  
Cap. 3°- Re Ormuk

Mentre la principessa Tsìppiri, futura regina dell'isola, cresceva dilettandosi con fiori, erbe e unguenti, dall'altra parte del Tirreno un popolo, confederato in una lega composta di città stato, cresceva e prosperava. I loro traffici commerciali si estendevano nello specchio d’acqua compreso fra la Sicilia a sud e il golfo ligure a nord, e avrebbero conquistato tutto il Mediterraneo Occidentale se i greci non avessero deciso di fondare Massalia, l’odierna Marsiglia. La politica estera dei re etruschi mirava a stipulare un patto commerciale di non aggressione con la nuova potenza imperiale africana, Cartagine, che dalle coste nord-africane spingeva verso le isole maggiori. La potenza dei Tusci (Etruschi), prima dell’avvento di Roma, era estesa per terra e per mare. I nomi dei mari che cingono l'Italia, testimoniano la loro autorità.
Livio (V, 33, 7), vissuto nei secoli a cavallo dell’avvento di Cristo, racconta che “le popolazioni italiche chiamano l'uno Tusco, dal nome comune di quel popolo, l'altro Adriatico, da Adria, colonia etrusca, mentre i Greci li chiamano Tirreno e Adriatico”.
Il Re etrusco Ormuk, cresciuto all'ombra di suo padre Ilvo, aveva da pochi anni assunto il potere. Il suo interesse principale era rivolto ai ricchi giacimenti (oggi in terra di Toscana) di Monte Valerio e del Monte Rombolo. Si trattava di miniere con filoni metalliferi superficiali ma di grande importanza e valore. Il rame era abbondante, così come i minerali di pirite, calcite, ematite e magnetite, le pietre preziose dell'epoca. Inoltre, il giacimento di magnesite portò una novità di vitale importanza per la nuova epoca che si apriva: gli etruschi, da lì a poco, trovarono il ferro, un nuovo metallo che nel giro di poche generazioni soppiantò il bronzo e rivoluzionò lo scacchiere politico mondiale.
Ma all’epoca di Ormuk la vera ricchezza era costituita dai giacimenti di stagno. Grazie alla presenza contestuale del rame, l’altro componente del bronzo, consentiva a Re Ormuk, e al suo popolo, di fabbricare un quantitativo imponente di armi  e di tenere sotto scacco tutto il Tirreno.



L’albero affonda le radici sulla terra
e si protende alto nel cielo,
e quanto più a fondo vanno le radici
più alte le fronde si elevano.
Per conoscere il cielo
bisogna conoscere la terra,
e quanto più si conosce la terra
più si conosce il cielo.
E noi quanto più conosciamo la morte
più conosciamo la vita,
quanto più ci immergiamo nel buio
più conosciamo la luce



Cap. 4°- Nurah, la Jana maestra

Intanto Tsìppiri cresceva, e con lei germogliava anche la sua passione per la magia verde, quella delle piante. La sua jana adorata, la sua maestra e guida, il cui nome significa luce, l’aveva convinta che il futuro era nelle piante.
"Farete amicizia con loro e il vostro futuro sarà prospero".
Le disse la jana in un momento di quiete di un pomeriggio estivo.
E aggiunse:
"Prendi il rosmarino, il fiore che ti ha attribuito il nome e di cui profumi. Secondo un’antica leggenda, tramandataci dalle nostre nonne, i fiori del rosmarino una volta erano bianchi. Divennero azzurri quando la Tanìt, durante la fuga da Sulki diretta verso Karalis, lasciò cadere il suo mantello su una pianta di rosmarino. Voglio insegnarvi una ricetta, ma ricordate che non potrete raccontarla a nessuno, solo alla vostra primogenita. L'acqua di rosmarino cura tutti i mali, e la sua magia consente alla donna meno piacente di diventare irresistibile per chiunque. Si prepara così: prendete l’acqua distillata, quattro volte trenta once, aggiungete venti once di fiori di rosmarino e conservate tutto per 4 giorni in un vaso ben chiuso. Successivamente distillate con un alambicco a bagnomaria. Prendete una volta la settimana una pitzìosedda (la misura di un bicchierino) di questa pozione miscelata con qualche liquore o bevanda, o insieme alla carne. Con tale miscuglio potete anche lavare il viso ogni mattina, o massaggiare le membra malate. Questo rimedio rinnova le forze, solleva lo spirito, purifica il midollo, fornisce energia vitale, migliora la vista e la conserva per lungo tempo, ed è eccellente per lo stomaco e il petto”.
“In effetti”, disse la Jana, “c'è uno speciale legame fra noi e la natura. Un legame che si consolida quando facciamo il vuoto in noi stessi e ascoltiamo gli altri esseri viventi. Le piante ci stupiscono per la loro bellezza, sono creazioni del Dio della bellezza e dell'amore. La natura, come noi, geme e soffre, e nella storia del mondo anche lei aspetta in qualche modo una redenzione insieme al genere umano. E’ compagna di lotta per il trionfo del bene, ed è vicina all'uomo per curare le malattie che rompono l'equilibrio del corpo. Inoltre è vicina nelle conquiste per far trionfare l'amore”.



Tsìppiri ascoltava la sua maestra con amore e dedizione. Sapeva che ascoltando quei consigli sarebbe cresciuta nel buon senso della saggezza. “Jana adorata, dite delle cose bellissime e di una profondità che ancora non capisco, e senza di voi mi sentirei sola a corte. Penso che nessuno mi voglia realmente bene come voi. Non fraintendetemi, è vero, tutti mi stanno intorno e mi riveriscono, e anche con i cugini si gioca e si scherza, ma senza le parole che ogni giorno mi dispensate, la vita mi sembrerebbe vuota. Insegnatemi ancora, vi prego, qual è il segreto delle quattro erbe? Riuscirò a curare mio padre dalla cecità?”.
“Benedetta figlia, io v’insegnerò le magie per sanare tutte le malattie, ma voi non dovrete mai cercare di guarire vostro padre. Lui è malato per scelta e per volere degli dei, ma non dovete preoccuparvi per lui. Se, invece, vorrete apprendere come curare i vostri animali, e un giorno quando diverrete madre i vostri figli, non avete che da ascoltarmi. Un insegnamento importante, e più antico dei nuraghi, riguarda l'aceto dei quattro mari. E’ un balsamo miracoloso formato da un miscuglio di varie erbe fra le quali spicca il rosmarino, ideale per curare i reumatismi del nostro clima umido. Si prendono tre libbre di miele di acacia e si cuoce a cottura lenta. Si lascia raffreddare e si aggiunge una libbra di fiori sani di rosmarino, riscaldando poco, così da conservare il colore natio. Conforta il cerebro umido, giova al cuore e corrobora le membra nervose”.
Tsìppiri ascoltava la maestra, annuiva e memorizzava.
“jana mia, mi raccontate come avete conosciuto tutte queste magie d'erbe?”
“Mi sono state trasmesse dai miei antenati”.
Rispose la jana, e aggiunse: “Il mio destino è d'insegnarle solo a voi principessa, e non a chicchessia. Una leggenda che mi è stata tramandata insieme alle ricette, narra la storia della principessa Luxi, figlia del re del Ghenn'e-ar-ghnt. Sedotta da un dio bellissimo, intrufolatosi furtivamente nelle sue stanze, fu colta sul fatto dal padre. Il re andò su tutte le furie. Non la perdonò, e l’uccise per questa sua debolezza. Sulla tomba della principessa i raggi del sole penetrarono fino a raggiungere le spoglie della fanciulla. Lentamente, dal suo corpo morto, germogliò una pianta dalla fragranza intensa, dalle esili foglie e dai fiori viola-azzurro pallido. Da questa leggenda nacque l’usanza di tutti i popoli che vivono sulle sponde del Mediterraneo, di coltivare il rosmarino come simbolo d’immortalità dell’anima. Ancora oggi, nelle cerimonie funebri, i rami sono adagiati fra le mani dei defunti e bruciati come incenso durante i riti”. 
La principessa, con occhi sognanti, disse:
“E' fantastico il rosmarino, mia cara jana, è davvero la mia erba d'elezione, mi cresce tutt'attorno e respiro il suo aroma notte e giorno. Se sparisse il suo profumo mi sentirai persa”.


…Tsìppiri ascoltava la maestra… Disegno di Stefano Gesh
“Non preoccupatevi mia regina, non sparirà mai”, disse la vecchia, “Voi stessa siete rosmarino. Vi sarà sufficiente poggiare due dita nella terra umida, e come d'incanto una pianta nuova di rosmarino inizierà a germogliare e crescerà robusta. Ma devo mettervi in guardia. Il rosmarino è una pianta molto potente: cattura le emozioni e coinvolge i maschi. Dovete usarla con parsimonia, perché gli uomini più potenti del mondo saranno attratti da voi, diverrete irresistibile. Perfino la nostra antica tradizione ritiene che sia la pianta degli innamorati. Regalare un ramo di rosmarino significa dire: penso sempre e solo a te. Il ramoscello, infatti, ha il potere di mantenere vivo il ricordo della persona che l’ha donato, quindi usatelo con moderazione perché già così non ne avrete bisogno. Alla fine sarete costretta a schermirvi da tutti gli uomini che cadranno ai vostri piedi. Vi voglio insegnare un altro incantesimo, che vi proteggerà dagli uomini troppo invadenti, fatene uso alla bisogna: versate in un recipiente chiuso un litro di acquavite di vinaccia, (è perfetta quella della riserva della cantina di vostro padre). Aggiungete tre volte trenta once di acqua distillata. Tagliate a fettine due arance fresche, di quelle di Mi - lys, le più pregiate e profumate se tagliate ben mature. Aggiungete due limoni e lasciate tutto in infusione nel vaso chiuso, esposto giorno e notte all’aperto, in modo che possa ricevere la luce solare e lunare. Il rituale deve iniziare il primo giorno di luna nuova.
Trascorsi quattordici giorni, colate tutto il macerato filtrandolo. Spremete bene le fettine di arancia e di limone impregnate di acqua ardente. A questo punto rimettete il liquore ottenuto nel contenitore lavato e asciugato, incorporate le erbe in libbre tre per ognuna: enula, issopo, salvia, rosmarino, menta e angelica. Fatto ciò, chiudete accuratamente il vaso ed esponete tutto all’aperto per altri quattordici giorni, con la raccomandazione di ritirare il vaso il giorno prima della luna nuova seguente.
Lo stesso giorno, eseguite per tre volte la spremitura delle erbe e il filtraggio del liquore ottenuto. Al termine, aggiungete due cucchiai di miele di acacia. Questa la potrete bere dentro una pitziosedda per tre volte subito dopo il vostro desinare. Ed ecco che sarete protetta.”




Cap. 5° - Le Janas

Nurah, l’amica della principessa, viveva con le sue sorelle. Erano delle donnine piccine come uccelli di campo. Preparavano le loro casette negli anfratti rocciosi dei monti, e vi risiedevano tessendo scialli con fili d’oro e d’argento, stendendoli la notte al chiaro di luna. Uscivano solo la notte, per paura che il sole bruciasse la loro pelle delicata. Erano venute dai paesi lontani portandosi appresso immense ricchezze.
Si racconta che un pastore preparò la sua capanna vicino alle casette delle janas, e rimase nascosto per giorni a osservarle, senza farsi vedere. Studiava un modo per derubarle. Un giorno prese un sacco e, camminando a quattro zampe, silenzioso come un gatto, si avvicinò a Nurah mentre stendeva il suo scialle al chiaro di luna. Guardare il viso delle Janas portava disgrazia, perciò il pastore evitò di fissarla. Si avvicinò alle sue spalle e, in un baleno, chiuse la testa dentro il sacco e portò la jana nella sua capanna.
“Fammi uscire da questo sacco”, urlò Nurah.
“Ti farò uscire quando mi darai tutto l’oro che chiedo”, rispose il pastore.
“Fammi uscire, e ti riempirò d’oro”, replicò decisa la jana.
“Se ti libererò, sono certo che mi trasformerai in pietra”.
“Non lo farò”, lo tranquillizzò Nurah.
“Dammi la tua parola”, intimò il pastore.
“Parola di Jana: se mi libererai ti riempirò d’oro”.
Il giovane pastore chiuse gli occhi, perché non poteva guardarla in faccia, e aprì il sacco.
“Ora mantieni la promessa”, ordinò alla Jana.
“Sì, manterrò la promessa! Devi dirmi basta quando pensi che l’oro sia sufficiente”.
In quello stesso momento cominciò a piovere dalla soffitta una grande quantità di paglia d’oro.
L’oro cadeva e riempiva ogni angolo della capanna, e il pastore era immerso in quella scintillante polvere preziosa. Lentamente ma inesorabilmente, la montagna cominciò a crescere. Quando il pastore decise di fermare la pioggia d’oro era troppo tardi: morì soffocato.


Elisir                Disegno di Stefano Gesh
Un’altra storia che si racconta sulle janas riguarda un ladruncolo. Correva come una furia in groppa al suo cavallo, e strappò dalle mani di una jana lo scialle che questa stava stendendo sulla roccia. Lei, furiosa, afferrò la coda del cavallo e lo fermò.
“Restituiscimi lo scialle, ladro che non sei altro!”.
“Vattene, moschettina, se non ti allontani ti schiaccio!”, urlò il predone.
Senza farsi intimidire la Jana cominciò ad attorcigliare la coda al cavallo finché questi si impennò. Il ladro perse il controllo e precipitò in un burrone. La jana riprese lo scialle e tornò nella sua casetta.
Le Janas sapevano anche essere malvagie, ma solo con i cattivi. Una leggenda popolare, vuole che le grandi pietre del territorio furono un tempo esseri umani. Coloro che si comportavano male subivano un incantesimo ed erano trasformati in pietre. Invece, con i buoni di spirito, erano infinitamente generose: stendevano grandi veli lungo le vallate e gli uomini venivano rapiti nel loro mondo, del quale, una volta tornati nella loro quotidianità, raccontavano cose stupende. Erano vere maestre d'arte, particolarmente nel ricamo degli scialli che le donne sarde usavano con i loro ricchi costumi.
Nurah, tra le altre cose, insegnò alla principessa Tsìppiri anche l'arte di difendersi dal malocchio: un sortilegio che viene lanciato contro una persona allo scopo di farle patire dolori e sofferenze. Porta malattie o sfortune gravi, le spiegò la Jana. Può essere lanciato consapevolmente, attraverso un incantesimo maligno, oppure inconsapevolmente, attraverso sentimenti negativi come l‘invidia e il disprezzo. E’ sempre diretto verso una vittima specifica. I sintomi provocati alla persona colpita sono violenti mal di testa, nausea, vomito, cattivo umore, depressione. Possono anche verificarsi eventi negativi sia dal punto di vista affettivo sia dal punto di vista economico. Il malocchio può essere a carico di una persona o di cose. Solo le Janas riconoscono e curano il malocchio ma, in particolari occasioni, decidono di svelare i segreti a uomini o donne che mostrino meriti nei loro confronti.
Le Janas tramandano il "potere" a individui di loro fiducia, solitamente familiari. Dopo il trasferimento del potere, chi l’ha trasmesso perde la sua capacità di eseguire il rito. E’ per questo motivo che il passaggio avviene quando la persona sente che si sta avvicinando alla fine dei suoi giorni. Le procedure per diagnosticare ed eliminare il malocchio sono diverse.





                                      La Jana Nurah

Nurah svelò alla principessa una magia molto antica: la persona colpita dal malocchio deve stare seduta e il guaritore riempie d’acqua un piatto fondo. Con questo piatto esegue per tre volte un segno particolare, poi lo ripete sulla fronte del soggetto del rituale. Mentre traccia dei segni, il guaritore ripete mentalmente, o sottovoce, le parole segrete previste dal rito. Terminato ciò, traccia su se stesso, sempre per tre volte, i medesimi segni e, toccando i bordi del piatto, esegue ancora il segno ripetendo mentalmente le altre parole segrete previste dal rito. La formula segreta è ripetuta tre volte.
Ultimata questa procedura, è possibile ottenere la "diagnosi". Si versano nel piatto alcune gocce di olio di oliva prese da un vaso preparato in precedenza, e si osservano mentre cadono nell'acqua: se l'olio si allarga la diagnosi è malocchio, ma può succedere che l'olio sembri scomparire. In questo caso la persona è stata colpita da malocchio già da qualche tempo, e sarà più difficile da trattare. Se invece l'olio si allarga poco, vuol dire che la "maledizione" è nelle prime fasi, in forma leggera e, conseguentemente, scomparirà più facilmente.
Nel caso in cui l'olio resti a galla, rivela che la persona non è stata colpita da malocchio e la cosa finisce lì. Se la persona invece ha il malocchio, si deve gettare via l'acqua in un luogo dove si ritiene che nessuno passi, altrimenti  potrebbe trasmettere il malocchio a chi la calpesta.
Dopo aver gettato l'acqua, si deve ripetere nuovamente il rito per altre due volte. Già la seconda volta gli "occhi" che compaiono nell'olio dovrebbero essere più piccoli, mentre alla terza volta non dovrebbe esserci più niente. Se gli "occhi" compaiono anche durante la terza ripetizione del rito, significa che il malocchio trasmesso è forte ed è necessario intervenire con una modifica: si tagliano gli "occhi" con le forbici e si ripete il rito il giorno dopo. È importante che, una volta iniziato il rito contro il malocchio, esso non sia mai interrotto.
I guaritori sono in grado di capire se il malocchio sia stato lanciato da una donna o da un uomo. Dipende da come si presentano le gocce dell'olio: se hanno accanto piccoli cerchietti, il malocchio è responsabilità di una donna (o di più donne). Se, invece, le gocce sono normali, la responsabilità è da attribuirsi a uno o più uomini. Se entrambe le tipologie di gocce sono presenti, allora la responsabilità è da ricercarsi in più persone di sesso diverso fra loro.
Se tutto è andato bene, la persona colpita dal malocchio comincia a sentirsi subito meglio.

La vita terrena passa,
il tempo scorre,
ma sfidano i secoli
le nostre cattedrali.
E' iniziata qui sulla terra
la nostra eternità.
Il vocabolario
è un oceano che pullula
di voci, espressioni
che sempre ci nutrono
intessendo i nostri rapporti con gli altri,
alimentando il nostro pensiero,
indirizzando le nostre opere.
La lingua è il filo conduttore
che tutto abbraccia,
e che sintonizza l'anelito nostro
al cuore che batte e dà vita,
che accoglie e che dona,
alla forza motrice del mondo.




Cap. 6°- Malgib, la regina di Cartago

Si narra che la regina discendesse in linea diretta dalla mitologica Didone, la regina di Tiro che, da quanto raccontatoci da Virgilio, s’invaghì di Enea ma, in preda alla follia per la delusione amorosa, si tolse la vita.
Malgib era primogenita di una nobile casta di Suffeti in linea materna, e della più potente famiglia di generali militari di Cartagine in linea paterna. Ambiziosa e astuta, riuscì con le sue belle arti (forse con la magia, mormoravano i più maligni) a convincere sia il Consiglio Supremo sia l'Assemblea Popolare, a nominarla governatrice della città. Approfittò di questo potere per eleggersi Regina. In breve tempo, grazie al suo talento per la gestione economica del territorio (mari compresi), e al potere giudiziario e militare che deteneva, intraprese la conquista delle antiche colonie levantine, allargando il suo dominio su tutta l'Africa, dal Marocco all'Egitto.
La fondazione della città di Ebusa (Ibiza) nel VII secolo a.C. da parte dagli antenati di Malgib, permise alla principessa di esercitare il controllo del Mediterraneo Occidentale, fino alla coste della Spagna.
In campo alimentare, diffuse ovunque la cultura del garum, una salsetta piccante a base di pesce, antesignana delle salse da Kebab di oggi. Questa salsa fece la fortuna dei Cartaginesi, tant'è che molti dei loro mercanti aprirono nelle zone portuali del Mediterraneo una serie di locali per la vendita di questo prodotto. Fu così che Re Ormuk, l'etrusco, una sera, mentre si aggirava per le viuzze di Tarch(u)na  (Tarquinia), sentendo un languore allo stomaco a causa di uno stuzzicante aroma sconosciuto, s'imbattè in un chiosco alimentare gestito da uno di questi Tanitiani (così venivano chiamati dagli etruschi i commercianti di garum di origine punica) che aveva introdotto questa novità nella città etrusca. Offriva un prodotto di alta qualità a basso costo. Il goloso Re Ormuk, naturalmente, non seppe resistere alla tentazione di assaggiare uno di questi gustosi involtini ripieni di pesce e salsa piccante.
“Davvero prelibato”, disse a fine pasto, e rivolgendosi al mercante aggiunse: “cosa posso bere per dissetarmi in questa calura estiva?”
“Per voi Sire, ho pronta una bevanda di cedro con miele, fresca e dissetante. La teniamo a dimora in questi contenitori di terracotta, inseriti all'interno di tronchi cavi di quercia. E’ l'unico modo per mantenere fresche le bevande”
“Interessante, è un’idea geniale” disse il Re, ma subito dopo borbottò “perché diavolo non ci hanno pensato i nostri mercanti a uno stratagemma simile?”
“Tutto molto buono davvero. Mi complimento con te Tanitiano. Sei il solo a conoscere questa delizia?”
“Forse voi, sedotto dalla bontà della nostra pietanza e rinfrancato dalla freschezza della nostra bevanda vi siete fatto un'idea di me, povero mercante punico, molto più grande di quello che io non sia, mio Re. Non è stata un'idea mia, noi Cartaginesi in verità abbiamo imparato a cucinare il pesce grazie agli amici dell'isola di Shrd. La chiamano Mr(e)-ka e la realizzano col cefalo e col muggine dorato, aggiungendo un’erba speciale che cresce nei loro stagni. Noi l'abbiamo adattata alle nostre usanze, utilizzando il papiro per avvolgere l’involtino. E’ molto più facile da trovare. La vera artefice di quest’idea commerciale è la regina Malgib, nostra signora di Cartagine, che ha spinto il commercio del garum in tutto il Mediterraneo. Ha deciso di aprire queste piccole botteghe nelle più importanti città, per il piacere di voi etruschi, e delle genti di ogni costa”.
“Che bella idea”, esclamò Ormuk con una certa sorpresa. E aggiunse: “quindi questa mirabìlia è tutta opera e genio della regina Malgib. Chi l'avrebbe mai pensato?” Prendete queste pietruzze di quarzo, di pirite e di galena, ve le siete meritate”.
Pagato il mercante, Re Ormuk decise di recarsi dalla regina di Cartagine per conoscerla personalmente. Aveva già sentito parlare di quella donna per le sue abilità militari e per il suo fascino, ma ignorava le altre qualità. “E che diavolo”, disse Ormuk, “ho assaggiato altre volte la Mr(e)-ka dagli amici di Tharr(o)s, e perfino l'amico Momoth, re dei sardi, ne andava pazzo. Più volte m’inviò in regalo un barile di garum per l'assaggio, ma questa ispirazione di aprire chioschetti per la vendita è strabiliante. Devo assolutamente conoscere quella donna!”


Malgib              Disegno di Stefano Gesh

Da quel momento, Re Ormuk pensò sempre più intensamente alla regina Malgib. Immaginava il viso, e la sinuosità. La regina gli appariva come una donna bellissima, dai tratti orientali, dai sontuosi e variopinti costumi, e progettò un viaggio per raggiungerla.
Intanto a Cartagine, distesa nel suo prezioso letto regale in ebano, intarsiato d’avorio e avvolto di rasi e stoffe di seta, la regina Malgib non pensava certo a re Ormuk, almeno non ancora.
Due marinai giunti a corte per comunicare una triste ambasciata, risvegliarono i suoi pensieri più vendicativi, relativi alla vicenda che, qualche secolo dopo, scrisse Erodoto*.
Malgib, con preoccupazione, apprese dai due marinai che i coloni focesi provenienti da Marsiglia, fondatori della città di Alalia in Corsica, ostacolavano il suo commercio di garum, arrivando a distruggere alcuni chioschetti che la regina aveva aperto nella città corsa. I focesi si macchiarono, inoltre, di un crimine imperdonabile: uccisero i mercanti punici. Ora, per la regina, si materializzava un serio pericolo per il commercio intrapreso nelle città del nord Sardegna.
La regina aveva un diavolo per capello, e di capelli ne aveva tanti. Alla moda cartaginese portava una treccia di capelli rossi fitta come la stoppa, e ripiegata più volte su stessa. Odiava il popolo greco con tutte le sue forze, da quando sua nonna Europa fu da loro rapita senza che il popolo fenicio poté mai avere soddisfazione (Erodoto*).





La carta della Battaglia


~
*Erodoto
“I sacerdoti di Zeus Tebano mi narrarono che, da Tebe, due sacerdotesse furono rapite dai Fenici. Seppero, in seguito, che una di esse fu portata in Libia e venduta, l’altra giunse fra i Greci: queste donne furono le prime a stabilire gli oracoli presso i popoli suddetti. Chiesi come appresero ciò che raccontavano, e i sacerdoti mi risposero che fecero attente ricerche su quelle donne ma non trovarono nulla. In seguito appresero su di loro quelle notizie che appunto mi riferivano...
Io, invece, ho sul fatto quest’opinione. Se è vero che i Fenici rapirono le due sacerdotesse e le vendettero una in Libia, l’altra in Grecia, secondo me, quest’ultima fu venduta agli abitanti dell’attuale Grecia (e che prima era detta Pelasgia ma è la stessa terra), cioè ai Tesprozi. Poi, schiava com’era, fondò in quel luogo, sotto una quercia cresciuta spontaneamente, un santuario di Zeus; come, del resto, era naturale che essa, in Tebe addetta al tempio di Zeus, ne conservasse il ricordo nel luogo dov’era giunta. In seguito, imparata la lingua greca, in quel luogo sacro fondò un oracolo. Raccontò che sua sorella fu venduta in Libia dagli stessi Fenici da cui essa pure era stata venduta”.
~



Per molto tempo Malgib riuscì a cancellare dalla memoria quella vicenda, il suo intento era quello di dimenticarla per sempre, una volta vendicato il popolo fenicio. Fino a quel giorno era riuscita nell’intento, ma i due marinai che giunsero fino a corte con quei foschi messaggi, scatenarono la sua ira. Le parole degli ambasciatori furono: ”Regina, nostra signora adorata, i focesi hanno dato fuoco alle nostre in edicole in Corsica e nel nord Sardegna. I nostri mercanti sono stati uccisi e i loro poveri corpi martoriati, sono stati esposti al pubblico ludibrio. Le loro mogli, dopo essere state violentate, sono state vendute a marinai greci che le avrebbero portate in Cappadocia”.
“Che orrore”, urlò la Regina. “Tutto questo andrà lavato col sangue, voglio radere al suolo Marsiglia, poi Alalia e poi…non voglio più sentir parlare dei greci in vita mia!” Mentre pensava e rimuginava, si sforzava di organizzare delle mosse efficaci. In quel momento un messaggero amico fu annunciato dalle guardie armate. Arrivava dalla Tirrenia con un dispaccio da parte di Re Ormuk, un re delle coste etrusche. Il messaggio diceva che il Re desiderava conoscerla. Intendeva parlare di affari comuni, in particolare della questione relativa ai commerci navali nel Mediterraneo Occidentale, perché i Greci cominciavano a invadere il Tirreno con i loro traffici e loro mercanzie”.
La Regina Malgib, lesse la missiva scritta in cuneiforme su un supporto realizzato con sottilissima pelle di capretto, alla maniera etrusca. Non ci pensò due volte e, colta la palla al balzo, inviò la risposta al re straniero. Scrisse su papiro, e lo inviò a bordo di un vascello carico di doni e di vettovaglie (compresa una dozzina di orci di garum).



Disegno di Stefano Gesh


Inconsapevolmente
dirigo verso te
i miei passi,
e non c'è una ragione precisa
perché io faccia questo,
o almeno io non lo comprendo.
Dico è più importante l'amore
che verso il tuo mondo mi porta,
o sei tu la cosa più importante della mia vita?
Quando tu dal tuo mondo m'allontani,
io penso che l'amore è energia
che troverà altri spazi,
verso cui dirigersi,
che è più importante l'amore
della persona amata.
Ed ecco, io sento
che Amore vive in me,
che è l'Amore
il mio unico amante.



Cap. 7°-  Dalla morte all’amore, alla guerra.

Dalle notizie funeste portate dai marinai cartaginesi, passando per la richiesta di alleanza di Re Ormuk, fino alla nascita di una storia d’amore con il re straniero, il passo fu breve. Certo, all’inizio non fu un amore disinteressato, non è il caso di indicarlo con tale generosità. Ma il legame sentimentale che coinvolse Malgib e Ormuk si trasformò in un’appassionata storia d’amore tra regnanti di due paesi amici, pur distanti per l’epoca. Si trattava di una passione tra “pendolari di lusso”, e forse si sarebbero sposati, unendo due continenti. Tuttavia ciò non accadde.
Malgib era troppo ambiziosa, e il suo desiderio di un “sacro punico impero” appariva a Re Ormuk come un pericolo per l’equilibrio politico del Mar Mediterraneo. Pur se la regina Malgib gli piaceva parecchio, e ne era innamorato, egli non aveva alcuna intenzione di creare un impero.
S’incontravano in mezzo al mare a bordo di un grosso vascello. Lo raggiungevano con veloci corvette: nera quella etrusca, e bianca quella cartaginese. Si appartavano per alcuni giorni dentro il sontuoso vascello all’ancora, arredato come si conviene a due regnanti, e trascorrevano intense emozioni, accompagnati da fastosi banchetti e danze. Si amavano e, allo stesso tempo, parlavano di affari, di traffici mercantili, di politica e di guerra, contro i greci di Massalia. Poi salpavano per il mare aperto, verso i rispettivi troni, sempre a bordo delle veloci corvette che, condizioni meteorologiche permettendo, schizzavano veloci come il vento e raggiungevano il porto in poche ore.
Il loro amore durò circa un anno. In seguito, la regina Malgib, preso atto che Ormuk, tranne i frequenti incontri sentimentali in mezzo al mare, non si assumeva responsabilità militari, decise di agire. Una scelta dettata dal destino, decisa da Bes e dagli altri dei che ambivano a un impero Cartaginese. All’epoca, i grandi cambiamenti non erano solo frutto delle scelte degli uomini: ogni essere umano sapeva che il destino era determinato principalmente dal volere degli dei.
Malgib non consultò l’oracolo e d’impeto, mentre era ancora avvinghiata al suo spasimante in un febbrile atto d’amore, ruppe improvvisamente la sacra egemonia dell’eros. Sbottando e ruggendo, pronunciò le fatidiche dieci parole che divennero epiche: “coinvolgiamo Re Momoth, il reggente sardo, chiediamogli appoggio e alleanza.”
“Mia signora, ma vi sembra questo il momento? Nemmeno fossimo in piena apocalisse”, strillò Ormuk seccato.
“Sbagliate mio Re, l’apocalisse è vicina”, replicò la regina, “dite a Momoth che sarà per lui un vantaggio, perché distruggeremo i focesi e affonderemo per sempre quelle maledette navi greche che appestano i nostri mari!”
Ormuk la fissò per un istante, e capì che la regina non scherzava. Col cuore in gola, si alzò dal letto d’amore e iniziò a riflettere. Per l’organizzazione degli eventi, vista la grande amicizia che lo legava da tempo al sovrano sardo, decise di contattare personalmente Re Momoth.



Disegno di Paolo Valente Poddighe


Brulica
la mia mente d’idee,
ma in un groviglio
di pensieri sta
nitida, intatta, nascosta,
la verità.


Cap. 8°-  Incontro in Sardegna

Momoth e Ormuk s’incontrarono nella città di Othoca (alla foce del fiume Tirso), e festeggiarono, come vuole la tradizione comune, davanti a una tavola imbandita di prelibatezze sarde e mediterranee. Erano trascorse due volte dodici lune dal loro ultimo incontro, e solo ora Ormuk, con un certo imbarazzo, apprende due importanti novità: la cecità di Momoth e la presenza di una nuova reggente, sua figlia: la principessa Tsìppiri. Preso atto della nuova situazione Re Ormuk, con disagio, si rende conto che non era possibile discorrere liberamente e da vecchi amici con il grande Momoth poiché ogni parola dell’incontro era partecipata anche dalla principessa Tsìppiri. Il discorso perde quella libertà conviviale che in passato contribuì a saldare l’amicizia fra i due re, e assume un indirizzo di politica economica internazionale.
“Cosa volete che vi dica”.
Bofonchiò Re Ormuk tra una tartina alla bottarga di muggine e una porzione di mre-kka, ”io e gli altri re delle città etrusche siamo stufi delle malefatte dei greci. Hanno trasformato il porto di Pithecusa in un mercato greco e sanno che gli ischiani sono sensibili al fascino delle cose belle, e possono pagare in oro”.
La principessa, annoiata dai discorsi ripetitivi e poco concreti, replicò:
“Mi comunicano, tuttavia, che l’ultimo carico dei nostri askoidi e dei gioielli sardi in filigrana e corallo, oltre l’olio e le sardine, è andato a ruba. E’ vero quel che dite, ossia che i greci vogliono controllare il commercio in Campania, ma è anche vero che voi siete sempre nostri interlocutori privilegiati per quanto riguarda le modalità commerciali”.
Re Ormuk, senza scomporsi, disse:
“La vostra presenza navale sulle coste del Tirreno orientale è gradita, ma i greci sono sempre più audaci e imitano alla perfezione i vostri vasi, i gioielli e le merci di pregio provenienti dal Vicino Oriente.”
“Ah, ah”, rise con eleganza Tsippiri, “è l'ineluttabile destino dei grandi essere copiati. Ne prenderemo atto. Del resto”, continuò assumendo un’espressione seria, “essere imitati non ci offende. Vi sono uomini che per mancanza di volontà tendono a impigrirsi, a essere egoisti. Pensano alle proprie convenienze, senza progredire né moralmente né verso la conoscenza. Noi sardi siamo da sempre un popolo aperto: abbiamo insegnato l'arte del bronzo ai nostri alleati, e prima ancora le peculiarità dell'ossidiana, ossia tutti gli utensili che si potevano realizzare con quell'oro nero. Essere copiati significa dimostrare un maggiore progresso tecnologico e, forse, spirituale rispetto agli epigoni”.
Quella risata elegante, la battuta bruciante, e quel discorso saggio, fecero rabbrividire Re Ormuk, che iniziò a sentire qualcosa nell’animo. Si voltò verso la donna con un’attenzione che non aveva provato prima. Iniziò a osservarla durante il pasto, a studiarne i movimenti eleganti, ad ascoltare con dedizione la voce ferma, musicale, autoritaria ma femminile. Apprezzò i magnifici occhi verdi, le lunghe ciglia nere, le rosse labbra carnose, la figura alta e snella.
Quando si avvicinò per passarle una terrina di crema di formaggio e versarle una coppa di vino, sentì nella pelle della donna un profumo di rosmarino che lo estasiò lasciandolo senza respiro, una fragranza inebriante che, da quel momento, non dimenticherà mai più.
Si narra che perfino Re Momoth, nonostante la cecità, si accorse dei ripetuti stati di “mancamento” emotivo di Ormuk al cospetto della principessa.
Prima di congedarsi nelle sue stanze, Ormuk ebbe modo di esprimere alla principessa il suo pensiero: “In definitiva, mia Signora, noi etruschi e la regina Malgib di Cartagine, non vi chiediamo di intervenire con la vostra flotta militare contro i greci. Conosciamo la vostra bontà e non vogliamo forzarvi. Vi invitiamo a lasciare che le nostre navi, e quelle cartaginesi, abbiano zona franca al largo delle vostre coste del nord est e delle bocche di Bonifacio. Vorremmo dare una lezione ai focesi liberando la Corsica, e questo per voi sarebbe un bene immediato, e se gli dei lo vorranno, intendiamo spazzarli via dal resto del Tirreno.
“Re Ormuk”, rispose la principessa, “io e mio padre, apprezziamo la vostra visita e la schiettezza nel linguaggio. Come vi ho già detto, i nostri commercianti realizzano buoni affari, e le nostre navi mercantili, perfino quelle lunghe quanto una fila da venti buoi, tornano sempre con le stive vuote e con i forzieri pieni d’oro. Tuttavia, a noi interessano la lealtà e la sincerità dei nostri alleati. Conoscete mio padre da tanto tempo, e sapete che poniamo la lealtà al primo posto, prima delle convenienze economiche. Questa fiducia alimenterà a lungo i nostri popoli e manterrà la pace nel nostro mare. Voi dite che i greci sono minacciosi, in particolare con i Focesi nell'isola di Kossìga (Corsica). Dite che minacciano il commercio perfino a sud delle vostre città. Bene, vi credo e sono pronta a stipulare questo patto con il vostro popolo e con quello cartaginese, guidato dalla Regina Malgib. Tuttavia, prima di dare la risposta definitiva, ho bisogno di avere altre informazioni e garanzie”.
“Dite pure mia Signora”, rispose Ormuk sicuro del fatto suo, ”vi prometto che onorerò ogni vostro desiderio. Vostro padre è testimone, da sempre, della nostra lealtà, e mai screzio ebbe luogo tra noi. Presto vi farò avere un documento dettagliato con il progetto della battaglia: luoghi, navi, numero di guerrieri, tempi di esecuzione, costi e quant'altro.”
“Questo vi fa onore Re Ormuk”, disse la principessa, “e non dubitavo della vostra affidabilità. Tuttavia, sappiamo che voi conoscete la nostra terra, e conoscete le nostre capacità di ferreo controllo capillare del territorio interno ed esterno. Non abbiamo bisogno di far navigare le nostre imbarcazioni in lungo e in largo: la fitta rete di nuraghi edificati nell'isola ci consente di comunicare con facilità da un capo all'altro del territorio. Ogni torre comunica a vista almeno con altre due. Utilizziamo segnali visivi, sonori e addestriamo gli uccelli. Ogni torre costiera comunica con le navi al largo grazie ai segnali di luce. Siamo fra i popoli eletti dagli dei, fra i privilegiati, e abbiamo tecnologie e conoscenze che altri non sospettano nemmeno”.
A queste ultime parole della nobile Tsìppiri, il Re Ormuk sentì il sangue raggelarsi nelle vene.
La principessa formulò l'attesa domanda:
“Riguardo la lealtà, ho bisogno di sapere che tipo di rapporto, oltre quello politico, vi lega alla Regina Malgib di Cartagine”.
A quel punto Ormuk si sentì bloccato dalle parole della principessa. Doveva rispondere rapidamente, senza far trapelare l’emozione. Non si aspettava quella domanda, e non aveva pronta una risposta. Improvvisò e giocò d'azzardo, pur nella consapevolezza che la risposta avrebbe condizionato l'esito e le vicissitudini dell'alleanza, e forse il futuro delle loro vite.

La principessa Tsìppiri            Disegno di Stefano Gesh


“Tra noi due c'è un rapporto di grande amicizia”, esordì Ormuk, “come altrettanta è l'amicizia che unisce il nostro popolo e il vostro, mia Signora. Inoltre, la regina Malgib è un'ottima governante, e geniale stratega. Ha un grande talento per il commercio, e grazie a lei il suo popolo progredisce nell'economia, nelle scienze e nelle arti. E’ una regnante illuminata, come del resto lo siete voi mia signora. Tra noi vige un leale e cordiale rapporto commerciale, improntato al bene delle nostre città”.
Mentendo spudoratamente, Re Ormuk aggiunse:
“So bene a cosa vi riferiate, e so che i pettegolezzi riguardanti i nostri incontri nel vascello reale fanno circolare voci false e tendenziose sull'integrità morale della Regina Malgib. Ma vi giuro solennemente che i nostri incontri sono istituzionali, e unicamente rivolti all'organizzazione strategica del futuro attacco alla flotta focese”.
“Sapete, Re Ormuk, è importante che io lo sappia”, disse Tsìppiri, “perché un’alleanza triplice come questa che progettiamo implica una perfetta conoscenza della verità. Io non sono contraria a una relazione intima tra due regnanti, benché essa non sia suggellata da un matrimonio. Ma devo saperlo, perché la triplice alleanza avrebbe solo due gambe salde: la terza potrebbe risultare zoppa. Comunque vi credo. Domattina, prima della vostra partenza, stipuleremo un patto scritto in tre copie, su pelle d'agnello”.
I due regnanti si congedarono e il giorno seguente, con i tre rotoli di pelle firmati con i sigilli reali, Re Ormuk prese il mare dal porto di Othoca diretto in visita ufficiale a Cartagine, dove la Regina Malgib avrebbe apposto anche il suo sigillo. Nel viaggio da Cartagine verso l'Etruria, il vascello della regina avrebbe fatto una breve sosta a Karalis, e la principessa Tsìppiri avrebbe ricevuto la sua copia del documento con i tre sigilli reali impressi.


Disegno di  Paolo Valente Poddighe


Dove ti cercherò,
amico mio?
Forse su strade
che io non so.
Nella brezza del mattino,
magari,
quando il sole si leva
principe del giorno.
Oppure la sera
quando tramonta
e dischiude le nuvole
facendo intravedere
cieli nuovi e nuove terre.
O nella notte
che s'ammanta di stelle,
dove ce n'è sempre una
che brilla di più.
E veramente io
ancora non so
se potrò trovarti
con questi fardelli che mi porto,
nell'ansia dei miei giorni,
nella quotidianità del vivere.
E però io,
ne sono certa,
non smetterò di cercarti,
perché in questa ricerca sta
il senso della vita.



Cap. 9°-  Maestri del bronzo.

Era una notte d’estate e Sardo decise di avvicinarsi al mare e guardare l’orizzonte. Il buio era ovunque, la vegetazione schermava le poche luci del villaggio, il cielo era scuro e immenso, ma una grande luna, luminosa e bruna, si specchiava vicino all’isola che ogni giorno offriva i suoi frutti e proteggeva dal caldo sole la famiglia dell’uomo. La risacca batteva aritmicamente confondendosi con la brezza notturna e lontano, all’interno del villaggio, un vociare confuso non consentiva a Sardo di ascoltare il vuoto silenzio della immensità marina. S’immerse in quelle acque nere, fresche e profonde che purificavano l’anima e il corpo, e per qualche istante il mondo che lo circondava svanì. Iniziò a nuotare e il respiro si fece sempre più rapido. Intanto a Kertos, così era chiamato il villaggio di Sardo, gli ultimi fuochi erano stati spenti dai sacerdoti del tempio e tre uomini iniziavano il loro turno di sorveglianza. La ripida salita che conduceva allo strapiombo era illuminata dal bagliore della luna e da lassù un suono di corno avvisava che la notte era tranquilla. Quando i tre uomini arrivarono sulla torre che dominava sul villaggio, le sentinelle che avevano terminato il proprio turno si spogliarono dell’armatura e indossarono le bianche vesti di lino per rientrare a valle, a Kertos, consumare l’ultimo pasto della giornata e riposare con le loro mogli. Era dura la vita nel villaggio per chi doveva sorvegliare la comunità. Turni di una giornata si alternavano con un ciclo di riposo che durava altrettanto. Erano 200 le persone che vivevano a Kertos, ma solo 10, in periodo di pace, si occupavano della guardia: due al tempio e tre alla torre divisi in due turni. Sardo, intanto, era rientrato all’asciutto e a passo lento si avvicinava al villaggio percorrendo quel sentiero che fra lentischio e ginepro conduceva alla capanna delle capre, il luogo nel quale trascorreva la notte ormai da 10 lunghi anni. Era solo un bimbo quando suo padre Pireo, l’allevatore giunto dal mare, gli affidò gli animali insegnandogli a governarli. Non c’era riposo in quel lavoro, ma le bestie offrivano latte tutti i giorni e carne quando era necessario. Ogni luna nascente un capretto era sacrificato alle divinità. Il sangue era raccolto nella coppa e, con formule rituali, versato nella vasca. Gli organi interni venivano disposti sull’altare e consacrati. La testa, le zampe e la coda offerti in olocausto e la carne divisa per essere consumata dalla comunità. Altri 9 erano gli allevatori di Kertos, e quando la comunità si riuniva per il banchetto rituale le 10 bestie erano sufficienti a sfamare anche le donne, i bambini e i vecchi. Le parti migliori erano per le guardie del villaggio, per i 2 sacerdoti e per il capo, il pastore che guidava il clan. Il conferimento degli animali per l’offerta era un giorno di gioia per Sardo. Gli era stato insegnato che la generosità e l’altruismo erano i presupposti per una vita felice. Quando sceglieva la capra sapeva bene che la più sana e bella del gregge sarebbe stata gradita al suo Dio, e prima di ucciderla tagliava una ciocca dal mantello e la metteva da parte per donarla al nipote e rinnovare un rito speciale, magico, lontano nei tempi. I padri della comunità raccontavano che un tempo, quando si viveva sotto le rocce vicine al fiume, i bambini preparavano un piccolo giaciglio con la lana consacrata alla divinità, e quando riuscivano a completarlo nella larghezza di un braccio e la lunghezza di tre, erano pronti all’iniziazione. La tradizione imponeva che la promessa sposa confezionava un tessuto da imbottire con la lana preparata dallo sposo. Quando i giovani raggiungevano l’obiettivo imposto dalla legge matrimoniale, si dava inizio ai cerimoniali con la benedizione delle famiglie e la preparazione del materiale per costruire la casa. Tutti i giovani del villaggio, maschi e femmine, trascorrevano l’infanzia dividendo la giornata in tre fasi della stessa durata: il lavoro nei campi e con gli animali, la preparazione dei cibi e la loro consumazione, e il riposo. Solo nell’ultima fase potevano dedicarsi alla preparazione del dono nuziale. I migliori riuscivano nell’intento prima del compimento dei 10 anni, e solo allora potevano chiedere agli anziani della comunità quali sarebbero state le prove da superare nel rito di iniziazione.
Uomini e donne preparavano un terreno di 10 braccia per lato e all’interno trasportavano tutto il materiale che serviva per preparare la futura casa. Nei momenti di riposo i giovani tagliavano i rami, accumulavano il fango per le pareti e lavoravano le pietre per la base della capanna. Le fibre vegetali per legare le fronde alla struttura erano fornite dalla comunità, già pronte in forti legacci preparati dalle donne già sposate e in attesa di figli. Il lavoro dei campi è duro per le mamme gravide e la comunità non consente che i nascituri siano a rischio di sopravvivenza nel ventre materno.
I ruoli della comunità sono precisi ma frequentemente sono scambiati secondo le necessità, e le richieste delle famiglie ai capi e ai sacerdoti sono sempre accompagnate da validi motivi.
L’unico mestiere che non consente riposo ed eccezioni è quello di Porax, il maestro dei metalli. Nella sua bottega, un bel circolo di pietre alto quattro braccia, e aperto così da consentire al fuoco di smaltire meglio il calore e i fumi, è un via vai d’individui con richieste sempre precise: affilare le lame, preparare le punte per le frecce, fondere un rottame per ottenere metallo nuovo, aggiustare con grappe un vaso in terracotta rotto per il troppo utilizzo e, soprattutto, preparare tutto ciò che il capo vuole sempre lucido e pronto all’uso. Guadagna bene Porax, è il più ricco fra i popolani, e sua moglie ha vesti in lino e prepara cibi sempre caldi e vari per i suoi figli.
Al suo laboratorio arrivano sempre con le offerte per i servigi resi. E’ esperto, e la perizia nelle rifiniture lo contraddistingue da quando il padre lo prese a lavorare con sé. Il rumore che si solleva quando Porax batte sul metallo per addolcirlo è insopportabile, e il capo volle che la bottega fosse spostata a cento braccia dal villaggio. La sera, quando arriva il momento del riposo, l’artigiano chiama i due servi e si fa aiutare a trasportare le scorte di metallo all’interno della casa del capo. Ogni giorno si ripete il consueto trasporto, dal deposito al laboratorio, su e giù per il villaggio, con i due servi che si proteggono le mani con pezze in cuoio e Porax che segue con occhio attento tutti i movimenti degli aiutanti. Il capo gli ha commissionato un rivestimento per i bracieri che riscaldano la casa nella stagione fredda. Sua moglie, Nesa, ha visto questo sistema innovativo che conserva meglio il calore alla festa di matrimonio di Kal, figlio di Molkesh, sovrano del clan degli Ilenesh. Sono i mercanti navigatori che trasportano pelli e avori scambiandoli con rame destinato a un popolo che vive lontano, dove il sole è forte e la vegetazione soffre per le scarse piogge. Insieme a Porax lavora Sila, un giovane orfano che la famiglia allevò fin da tenera età. I suoi genitori morirono durante una rivolta, quando nel villaggio ci fu una congiura per rovesciare il potere. Il vecchio re non aveva più il controllo su alcuni capi di confine che si allearono con il potente Momoth, sovrano di vasti territori lungo il fiume. Il suo popolo viveva di agricoltura e pastorizia, ma il surplus derivante dalla produzione era interamente destinato all’acquisto di metalli per fabbricare armi. Aveva combattuto in oriente Momoth, e sapeva come approvvigionarsi di materiali e uomini che sapevano fondere il bronzo. Con le sue armi riuscì rapidamente ad assoggettare le genti del fiume e ampliò i suoi possedimenti annettendo a essi anche i territori di Kertos. Sila fu risparmiato dal nuovo re e fu accolto nella famiglia di Porax. Si confidava spesso con il suo genitore adottivo e nutriva la speranza di uccidere Kabir, guardia personale di Re Momoth e assassino dei suoi genitori. Imparò presto a fondere i metalli e raccoglieva qualche rottame per riuscire, un giorno, a fabbricare un pugnale. Una sera Porax non andò al lavoro e chiese a Sila di completare il lavoro dei bracieri. Il giovane riuscì a risparmiare qualche frammento di metallo e, nonostante avesse rifinito a regola d’arte la commissione per Nesa, completò il lavoro di raccolta di quel tanto che bastava per preparare un bel pugnale. Lavorò tutta la notte, e il rumore della lama che veniva affilata era attutito dalla pioggia che incessantemente cadde nel villaggio fino al mattino. Alle prime luci dell’alba arrivarono gli aiutanti di Porax per scaricare i metalli da lavorare, come tutti i giorni, e trovarono il giovane addormentato sul giaciglio del laboratorio. Il pugnale era ben conservato all’interno dell’imbottitura e i bracieri, lucidi e perfetti, erano pronti per essere consegnati. Svegliarono Sila e si fecero aiutare a caricare il lavoro sul carro. In quel momento giunse Porax, e vedendo la raffinata lavorazione eseguita dal giovane, decise di premiarlo. Gli offrì una paga adeguata al grado di maestria raggiunto, e da quel giorno nel villaggio ci furono due maestri. Intanto nella casa di Porsiace, uno dei sacerdoti del tempio, iniziavano i preparativi per la cerimonia d’iniziazione del giovane Remes, figlio primogenito di Restivo e Arianna.
Un giorno esatto prima della cerimonia per Remes, Sila ricevette una visita, un uomo alto e grosso vestito di cuoio lucido. Indossava una machera* all'altezza del petto, e pare fosse un uomo della guardia scelta della regina. Si avvicinò per parlargli, presso la casa di Porsiace. Lontani da sguardi indiscreti, i due conclusero un contratto di vitale importanza per le sorti dell’intera isola.

* spada sarda, una via di mezzo tra il pugnale e la spada corta per il corpo a corpo, tipica dei soldati sardi dell'epoca.


Disegno di Stefano Gesh


L'amore dà ali d'aquila
a chi si innamora
e fa andar lontano,
dove la vita chiama.
L'amore t’inserisce
in una realtà meravigliosa,
e da protagonista ti fa assistere
allo spettacolo del mondo.
L'amore è una strada che si apre
in un'intricata boscaglia,
è l'avventura
in un mondo sconosciuto.
L'amore è un'opera originale
che costruisci
leggendo gli occhi
della persona che ami.



Cap. 10°-  Nei sogni, la visione.

Camminavano insieme verso il più lungo dei ponti della nave chiamata “Infinita”, tenendosi dolcemente per mano. Il ponte sembrava non dover terminare mai. Lui si arrestò, e lasciandole la mano sinistra, estrasse dalle ampie tasche sotto il mantello un plico in pelle, lo srotolò con perizia e cercò di leggerlo ad alta voce. Ma lei, come se sapesse già tutto, gli mise una mano sulla bocca e lo anticipò, pronunciando le identiche medesime parole scritte sul rotolo:

Tutti i giorni della vita
io vorrei passarli insieme con te,
perché ti amo
non per quello che sei,
ma per quello che insieme
riusciamo a essere:
protagonisti della vita.
Nello scenario di questa realtà,
proiettata nel futuro insieme a te
mi sento artefice
di un mondo in lavorazione
che abbiamo progettato noi.


Al risveglio Ormuk, stropicciandosi gli occhi si tirò su dal letto e cercò di razionalizzare. Era un sogno…e il pensiero corse subito a Tsìppiri, e non a Malgib, e questo lo fece tremare. Un altro brivido percorse la spina dorsale e gli fece accapponare la pelle. Il ricordo di quella donna pareva sconquassarlo, si sentiva confuso: aveva perso la testa, come fosse un adolescente.
Quel viso sublime, e quel profumo gli ritornavano in mente ogni momento. Un profumo di erbe speziate e di rosmarino, intensi, come l'essenza stessa di quella pianta e di tutte le piante profumate del mondo miscelate fra loro. Sospettò un sortilegio: i sardi, eccoli lì, sempre pronti con le loro magie a ingannare lo straniero, e ad approfittare dei forestieri.
Si riprese, e giustificò: “Ma no, cosa vado a pensare, lei è così bella. Insomma basta, devo finirla con i dubbi, non posso impazzire per una donna, per quanto intrigante e affascinante”. Proseguì: “La devo incontrare, ma non posso, non subito, inoltre Malgib s’insospettirebbe. Già, Malgib. Le cose sarebbero più semplici se lei non fosse coinvolta, ma a questo punto non posso tirarmi indietro, avverrebbe un disastro per colpa mia. Ora che ci mostriamo pronti ad attaccare le navi greche ad Alalia, e stiamo per mettere a soqquadro la Corsica. Ormai abbiamo messo troppe cerve sulle braci, e i greci avrebbero il sopravvento nello scacchiere internazionale dei traffici commerciali”.
Intanto, sull’altro versante del Tirreno, anche la principessa Tsìppiri si era appena svegliata. Dimorava nella sua magione di Sard-ara, nel bel mezzo dei campidani, in un magico scenario di piscine d'acque termali, ponticelli sospesi, giardini fioriti e profumatissimi alberelli da frutto. Un luogo paradisiaco, un Eden che la principessa Tsìppiri aveva curato con le proprie mani fin da piccola. Quella stessa notte aveva sognato che un serpente con una livrea variopinta, simile a un mantello regale, le mordeva un piede. Quel serpente aveva l'effige di Re Ormuk. Quando lei cercò di schiacciargli la testa, il rettile pianse teneramente chiedendo perdono. La primogenita di Momoth, era esperta nell’interpretazione dei sogni. Sapeva che ogni visione onirica era un dono del mondo spirituale che l’avvisava, consigliava, aiutava, inviandole preziosi messaggi durante il sonno.
“La verità non è quella che percepiamo con il solo senso della vista”. Queste parole, pronunciate tempo addietro dalla jana, sua maestra, le erano rimaste impresse nella memoria fin da quando aveva sette anni, ossia da quando ascoltava gli insegnamenti e le parole illuminate della sua guida.
Le venne in mente di disegnare su una pelle chiara di agnellino, la figura di Re Ormuk, così come se lo ricordava. Lo vide bellissimo, alto e longilineo, dai lineamenti del viso dolci. Somigliava a un dio Persiano. Con quei ricci capelli biondi pareva una statua raffigurante Mitra, il dio Re, considerato la divinità tutelare dei regnanti. Identico a quella scultura, fusa nel bronzo, ricevuta in dono dalla cugina di secondo grado Urmia, primogenita della dinastia reale degli Achemenidi. “Se è simile a un dio buono perché mi ha mentito?”, e concluse: “allora ha ragione la mia cara jana: i nostri occhi non vedono le cose come sono realmente, e ne rimangono ingannati.”
Senza ulteriori indugi, si recò alla fonte sacra delle terme, discendendo una breve scalinata in basalto rosso che la condusse ai giardini del culto dell'acqua. Lì, una sacerdotessa, le aprì le porte del tempio.
“So già cosa deve chiedermi, mia Signora”, le disse con reverenza la donna, “ha portato una statuina dell'uomo che vorrebbe vedere?”
“Purtroppo no”, rispose la principessa, “ma ho disegnato io stessa su questa concia d'agnello la sua figura”.
“Andrà benissimo”, replicò la vestale del tempio, “iniziamo a visualizzare il passato, poi chiederemo lumi sul futuro”.
Durante la cerimonia, la pricipessa Tsìppiri vide materializzarsi sullo specchio d'acqua del catino bianco di marna, sia la conferma dei suoi sospetti sia un inaspettato sviluppo della faccenda. I primi due visi che si concretizzarono sull'acqua, furono quelli di  re Ormuk che baciava appassionatamente la Regina Malgib. Alla seconda domanda, circa il futuro del loro rapporto, sullo specchio d'acqua emerse l'immagine di Ormuk che baciava la principessa Tsìppiri. E vide un coltello, impugnato da una mano sconosciuta, che puntava dritto al cuore di Malgib.
“Che cosa significa quel coltello?”, chiese Tsìppiri allarmata. 
“Avete chiesto agli spiriti dell'acqua di predirvi il futuro. I volti delle persone che avete riconosciuto rappresentano ciò che non è concesso cambiare, quelli non mostrati rappresentano invece ciò che può ancora essere cambiato, o fermato”.
“Ti prego, sii più chiara, affermi che non tutto ci è stato mostrato?”, chiese la principessa. “Non vi è stato mostrato il volto, né resa riconoscibile la mano della persona che dirigeva l'offesa contro il cuore della donna: significa che quella mano assassina può ancora essere fermata e il futuro modificato da voi, mia signora”.
La principessa annuì, ma prima di congedarsi dalla vestale del tempio, si fece portare da un’ancella tre navicelle di bronzo e le diede alla sacerdotessa. Le tre barchette erano di simile fattura, e rappresentavano in tutti i dettagli tre navi di tre flotte di tre nazioni diverse. Tsìppiri chiese ancora una volta di consultare l'oracolo dell'acqua, e ascoltò con attenzione ogni parola della sacerdotessa.
Lasciato velocemente il tempio, Tsìppiri ritornò alle sue stanze, ma non fece in tempo a riflettere sui recenti accadimenti perché una delle sue guardie scelte si presentò alla sua porta.
“Principessa, nostra signora Tsìppiri”, disse la guardia.
“Che succede Alòthor? Cosa ti turba?” chiese la reggente.
“Sessanta navi cartaginesi e sessanta barche etrusche sono state avvistate dalle nostre vedette. I cartaginesi sono salpati dal nostro golfo di Bha-uny dopo aver scaricato le merci, e risalgono verso nord. Le navi etrusche arrivano da nord-est, e sono state riconosciute dalle nostre sentinelle di Mont-hai, Bal-jana e Cala-him (nelle attuali coste della Gallura). Inoltre, da parte di Re Ormuk, è arrivato per Voi questo dispaccio di pelle arrotolata e suggellata”.
Tsìppiri era sia principessa sia reggente, era figlia di un grande navigatore, e rimase calma mentre apriva il messaggio di Ormuk. Sapeva già cosa fare, e diede immediatamente gli ordini appropriati.
“Alòthor, t’incarico di condurre quest’operazione”, disse la pricipessa al più valoroso dei suoi capitani.
“Ai suoi ordini mia dea!”, rispose Alòthor, ostentando sottomissione.
“A che punto è la fabbricazione delle duemila mazze spaccaossa di bronzo, e delle machere commissionate il mese scorso al discepolo di Porax, Sila?”
“E’ tutto pronto, senza imprevisti mia Regina. Ho ritirato io stesso la fornitura e ho provveduto a sistemarla nell’armeria.”
“Bene Alòthor, arma duemila uomini con le mazze e le machere, e fai uscire dalla rada di Mont-hai sessanta navi. Disponile lungo tutta la costa a protezione delle baie, da nord a sud a distanza di duecento braccia l'una dall'altra. Dovete creare una cordigliera.  Fatto ciò attendete, e incaricate le vedette di osservare ciò che accade. Lasciate che le navi cartaginesi sfilino davanti alle nostre coste da sud, e incontrino le navi Etrusche provenienti da nord. Dovrebbero incontrarsi in  prossimità delle isole Cerbicales.
Se accadrà ciò che ho visto al tempio, e ne sono certa, le navi focesi nella rada di Alalia, quando avvisteranno le imbarcazioni etrusche provenienti da est inizieranno le manovre. Si metteranno di prua al loro inseguimento ma, giunti vicino alle isole, si troveranno dinnanzi allo sbarramento cartaginese, e ad altre trenta navi etrusche. Noi presidieremo le coste vicine, con venti piccole barche armate di mazzieri e osserveremo quanto accadrà. In seguito vi dirò cosa fare, ora andate”
Congedata la guardia, srotolò l'ambasciata di pelle di capretto inviata da Re Ormuk e, con calma, lesse ad alta voce quanto vi era inciso.
“Tutti i giorni della vita vorrei passarli con te. Ti amo per ciò che sei, e per quello che insieme riusciamo a essere: protagonisti della vita. Nello scenario di questa realtà, proiettata nel futuro insieme con te, mi sento artefice di un mondo che abbiamo progettato congiuntamente.
Mia signora, ho fatto questo sogno e nel sonno vi udivo ripetermi con dolcezza quelle parole. Subito dopo, soffrendo gli spasmi del cuore ho pensato a voi, solo a voi, e questo male oggi mi assilla, perché vi amo. In passato ho amato la regina Malgib, ma è finita e oggi amo voi. Vi chiedo perdono e comprensione se vi ho mentito. Sempre Vostro, Ormuk”.



Disegno di Stefano Gesh


Come posso esternare ciò che sento
se come argento vivo
si spande il mio pensier
e stilla in mille gocciole fuggendo
cercando sempre spazio e libertà?
Ci vorrebbe, lo so,
un contenitore,
che freni la sua corsa disperata,
che buono lo contenga finché cresce
e avrà un po’ di senno e autorità.
Un giorno raccolsi in una mano
le gocce di un termometro sfasciato.
Prodigiosa mi sembrò per un istante
quella piccola pallottola d’acciaio,
ma sentivo struggente nostalgia
del pullulare a profusione delle stille
che correvano nel suolo scomparendo
cercando sempre spazio e libertà.


Cap. 11°- Lo scontro finale

Con il favore dei venti del mattino, e con il sole alle spalle, la flotta etrusca lasciò le coste dell'Etruria. Si udiva solo il respiro dei rematori che tuffavano con violenza i legni nelle acque blu. Era uno spettacolo, una sincronia che solo il continuo allenamento riusciva a perfezionare. Issarono le vele tra l'isola del Giglio e Giannutri, al  largo dell'isola di Montecristo. In poco tempo, spinta dai favorevoli venti dell'est, giunse in vista della Kossiga, l'isola di Corsica.
Navigando a vista verso la costa Corsa, virò verso meridione e transitò di fronte ad Alalia. Fu avvistata dalla vedette greco-focesi che immediatamente suonarono il corno per allertare la popolazione. Re Ormuk comandava la nave alla testa della flotta e notò che di fronte ad Alalia non era ancora giunta alcuna nave cartaginese, forse in ritardo a causa del vento contrario. Continuò la navigazione verso le isole Cerbicales e lì, finalmente, incontrò la flotta della Regina Malgib, anch'essa alla testa della flotta.
L’armata navale Cartaginese, salpò con 60 navi dal golfo di Bha-uny, dopo aver scaricato le merci e le vettovaglie nell'emporio sardo. Si diresse verso nord, ma la mattina dello stesso giorno, a causa della violenta corrente contraria trovata nelle Bocche di Bonifacio, fu costretta a riparare in baia.
Le vedette greco-focesi avvistarono per prime le navi etrusche, e lanciarono l'allarme alla flotta. Approntarono l’equipaggio e le armi da guerra e, nel giro di qualche ora, la flotta di Alalia veleggiava con 60 navi verso i nemici.
Organizzati in assetto da battaglia, i Focesi inseguirono la flotta etrusca disponendosi lontano dalla scia di striscio delle navi Tirrene. Per sfruttare le correnti meridionali discendenti, presero una direzione favorevole così da aumentare la velocità e non subire turbolenze derivanti dalle onde d'urto delle navi nemiche. Con questa manovra, inoltre, impedirono alle due flotte nemiche di ricongiungersi. Grazie allo stratagemma, Koloppisi, il comandante della flotta focese, riuscì ad arrivare al largo delle isole Cerbicales in anticipo rispetto agli Etruschi e ai Cartaginesi, non consentendo loro di sistemarsi in assetto favorevole.
La battaglia fu cruenta, e Re Ormuk ordinò ai rematori di aumentare le vogate e speronare le navi focesi con gli speciali rostri di bronzo che fuoriuscivano dalle chiglie etrusche.
Le 120 navi alleate Etrusche e Cartaginesi si opposero alle 60 navi greche, ma queste ultime, arrivando a gran velocità sul luogo dello scontro, nelle coste delle Cerbicales, avevano conquistato un vantaggio strategico di posizione, e limitarono i danni. La battaglia navale fu terribile per tutte le armate in gioco. Una dietro l’altra, le navi s’inabissavano e i guerrieri superstiti greci, etruschi e cartaginesi, si affannavano cercando di raggiungere a nuoto la riva. Il terribile e inatteso colpo finale, che finì di affondare la flotta greca, fu portato dai mazzieri a bordo delle barchette sarde. Questi, come era stato ordinato dalla pricipessa Tsìppiri al capitano Alòthor, si riversarono come falchi in picchiata sulle barche focesi già colpite. Assaltarono e uccisero i nemici senza pietà, con possenti colpi di mazza. Sulle barche sarde furono portati in salvo gli alleati, mentre non ci fu scampo per i greci: arrivati sulla costa furono sterminati da un fuoco di frecce dei temibili arcieri sardi.
Re Ormuk e la Regina Malgib, con il sapiente contributo della principessa Tsìppiri, grazie alla triplice alleanza spazzarono via per sempre la marineria Greca dal Tirreno settentrionale, e dal mare di Sardegna. Re Ormuk instaurò una talassocrazia nel Mar Tirreno (mai i Greci si erano trovati davanti a una flotta navale così potente), e fondò in Corsica una nuova città presso Alalia battezzandola Nik-aia (vittoria).
In seguito a quella mitica battaglia, e per lungo tempo, i vincitori rinnovarono il patto d'unione suggellandolo con grandi feste e con un trattato commerciale che stabilì la spartizione politico-economica del Mediterraneo Occidentale fra Cartaginesi ed Etruschi, alleati dei sardi. Tuttavia la battaglia che ancora si doveva decidere era quella del cuore, e nessuno sa come andò a finire.
Pare che perfino Erodoto riferì nei suoi resoconti che per tanti anni un fortissimo profumo di rosmarino avvolse le coste del Mare Sardonio e del Tirreno. Alcuni marinai di Ischia raccontarono, e divenne leggenda, di una nave bianca che viaggiava col pensiero, senza remi, e a prua mostrava una grande protome taurina. Proveniva dall'isola dei Serdaioi, e portava a bordo un re con i riccioli biondi e una regina bellissima, con gli occhi verdi. Quando sbarcavano a Pithecusa, camminavano per ore nel lungomare tenendosi per mano. Ripartivano all'alba del giorno dopo, con il sole alle spalle, diretti verso occidente.
Una stele in lingua fenicia, ritrovata nell’Ottocento sotto le sabbie di una cala nel Golfo di Orosei, aveva inciso in cima due nomi ben leggibili: Rrmk e Tsppr, e la traduzione dell’epigrafe narra di un matrimonio d'amore, avvenuto tra i nobili regnanti di due potenze alleate. C'è chi ritiene che quei nomi si possano ricondurre al re Etrusco e alla principessa Sarda.
Ancora, in Sardegna, si racconta la leggenda di una bellissima principessa regina dei mari che anticamente convolò a nozze con un re straniero. Lei lo sposò salvandogli la vita, e impendendogli di commettere un crimine che lo avrebbe condannato agli inferi. Il loro matrimonio unì due regni, e grazie a quest’ unione i loro popoli per molti secoli rimasero fratelli.
Non sappiamo come sia andata in realtà, ma romanticamente siamo portati a credere che la principessa Tsìppiri abbia perdonato Re Ormuk e, ricambiandone i sentimenti, abbia sventato quel piano criminale che egli, perduto d'amore per lei, immaginava di realizzare.

Disegno di Stefano Gesh


La vita terrena non è
la piccola spanna di tempo
che va dalla nascita
fino alla morte.
La vita terrena è una molla
che scatta,
perfora gli angusti confini del tempo,
s'inoltra, si spande,
sconfina.
Va verso l'eterno.


Cap. 12°- Parlano i protagonisti.


                                              «Grido, e brucia il mio cuore senza pace
                                                          da quando più non sono
                                                         se non cosa in rovina e abbandonata»
                                     (Giuseppe Ungaretti, Cori descrittivi di stati d'animo di Didone)



Malgib                  Disegno di Stefano Gesh



La Regina di Cartagine, Malgib
“Dopo la battaglia di Alalia, il popolo Cartaginese prospererà e governerà su gran parte del mondo mediterraneo, così come gli dei avevano da tempo stabilito. E il mare usurpato dalle serpi focesi diverrà di nuovo nostro. Con gli amici sardi i patti d'alleanza e commerciali andavano a gonfie vele. Tuttavia percepivo in cuor mio che non tutto filava per il verso giusto. Le tensioni delle guerre e i contrasti continui con i focesi, mi allontanarono dal cuore degli dei, e di ciò ero consapevole. Mi riavvicinai al tempio, consultai l'oracolo e, per Didone, quante volte mi pentii di non averlo fatto prima. Scoprii che la Reggente Sarda mi era ostile. Quando mi rivolsi alle sacerdotesse dei templi, e l'oracolo mi chiese di far cantare il sistro*, sventura volle che vedessi le immagini del mio uomo nelle braccia di quella donna ignobile, miserabile. Sentivo, già a distanza considerevole, l'effluvio mefitico e nauseabondo dei suoi filtri d'amore, e l'orrendo potere delle sue magie. Con la stregoneria si prese la mente e il cuore del debole Ormuk. Ed ella ora, senza pietà alcuna per me, trascina via quell'uomo, un tempo mio.
Ero predestinata alla conquista, ero l'erede della splendente Didone, baciata da Tanìt alla nascita e cresciuta nei favori di Sin e di Shamash.
Sono costretta a rompere per sempre il patto, e dichiarare guerra ai sardi. Ocuperò la loro terra, dalle coste fino ai fertili campidani, con migliaia di uomini. E nulla di loro resisterà alla mia terribile vendetta, al mio urlo di guerra che scatenerà la cieca giustizia. Non un nuraghe, non una torre, rimarrà in piedi, nessun inutile baluardo resisterà al fulgore della potenza delle nostre orde. Io stessa, con le mie mani, squarcerò la gola dell'ignobile principessa, perfida usurpatrice di cuori.
E Ormuk, Re del nulla, lo ignorerò, abbandonandolo perfino nei miei pensieri. Ah, sottile vendetta. L’affiderò al suo turpe destino, lasciandolo andare alla deriva per sempre insieme al suo popolo. Una stirpe senza futuro, inutile genìa di un popolo prossimo al declino. Il cinico e veritiero oracolo lo ha predetto”.

*Sistro: Strumento musicale con anima metallica a forma di ferro di cavallo, teso verticalmente da asticciole trapassate da dischetti, che producono un suono con il movimento ritmico dello strumento.

Il Re dei Sardi, Momoth
“Diedi promessa in sposa, l'ancora piccola Tsìppiri, a un suo coetaneo il cui nome era Arko, figlio del capitano Batriq, all'epoca signore dell'isola di Sin-ar (Asinara). Era, del resto, un costume ancestrale del nostro popolo scegliere sin da piccole il futuro coniuge delle nostre figlie, e così anch'io, seppur in accordo con sua madre Syra, vera artefice di questa scelta, non volli oppormi a questa vetusta tradizione.
Arko, tuttavia, non crebbe nelle fila della nostra marineria. Al momento della sua richiesta non servivano giovani apprendisti, ma divenne comunque un abile marinaio e valente guerriero. Appena quindicenne, all'età di un possibile fidanzamento, andò per mare arruolandosi nella flotta dell'amico Ilvo, il padre di Re Ormuk, anch’egli prossimo alla successione. Tsìppiri, che perse di vista il suo coetaneo, si disaffezionò col tempo al suo amico d'infanzia, e ritenne che l’allontanamento non  fu un atto del tutto casuale.
Chi l'avrebbe detto che egli poi avrebbe maturato tutto quell'astio per la principessa, mia figlia adorata?
Quando Re Ormuk si innamorò di lei, e lei lo ricambiò, noi tutti ritenemmo che ciò fosse in linea con il destino, e anche la jana nostra, Nurah, vide nei suoi sogni quel grande matrimonio che poi davvero ebbe luogo. Ciò nonostante, l'amico Batriq la prese male, e così suo figlio Arko. Ispirato dalla mandante Malgib, Regina di Cartagine, il giovane attentò alla vita di Tsìppiri in cambio di una manciata di stagno.  Re Ormuk, invicibile guerriero, come pochi abile di spada, ne placò in duello l'ira funesta, ponendo fine alla sua vita con un mortale colpo al viso che lo passò da parte a parte”.


Il Re degli Etruschi, Ormuk
“All'epoca nulla sapevo di quell'uomo, né fui informato del suo ruolo di consorte predestinato della mia amata signora, la nobile principessa Tsìppiri. E quanto accade fu vicenda controversa. Solo l’intelligenza e l’arguzia della mia regina chiarirono una situazione che diveniva insostenibile.
Dopo la battaglia di Alalia, il mio esercito e la mia marineria ripristinarono la supremazia sulle coste del Tirreno, e non volli più incontrare la Regina di Cartagine. All'uopo, le scrissi un messaggio d'addio, incaricando il mio fidato luogotenente, il sardo Arko, di recapitarlo. La Regina Malgib non accettò questa mia decisione e, consultato l'oracolo nel maestoso tempio di Gades, venne a conoscenza dell'amore scoppiato tra me e la dolcissima Tsìppiri. Mi fidavo di Arko, e non potevo presagire che dietro quella fitta corrispondenza epistolare che seguì il primo messaggio tra me e Malgib, ci fossero i sussulti del cuore trafitto di Arko. Nascose l'inganno e progettò un tremendo disegno di delittuosa vendetta.  Gli attentati da parte di mani oscure alla mia persona si susseguivano, e io, anziché chiedere lumi e affidarmi alla saggezza della principessa Tsìppiri, cercai di sventare personalmente i piani di quelle menti raffinate e occulte. Convinto della sua estraneità ai fatti, chiesi al più fidato dei miei luogotenenti di mettere fine alla vita della Regina Cartaginese, scaricando le colpe ai greci. In cambio promisi, per riconoscenza vera, il ricchissimo giacimento di stagno dell'isola di Plotino. Non sospettavo che Arko, il rinnegato traditore, si arruolò a nostra insaputa nell'esercito punico. Da spia, qual era diventato, attuò un doppio gioco. Godeva dei privilegi che gli concessi ma, al contempo, complottava con Malgib l'assassinio della Principessa, la mia regale futura consorte. Fu Tsippiri che, grazie all'intervento a suo favore di tutti gli Dei, venne a conoscenza del subdolo intreccio criminale.
Bonariamente fermò la mia mano, decisa ad agire furiosamente su Malgib e su Cartagine. La sua lungimiranza mi fece capire che la violenza chiama altra violenza, e mi aprì gli occhi sulle sorti del mondo, sulla necessità di una nuova visione delle cose. Mi disse che il buon governo si esercitava anche e soprattutto con la comprensione altrui e con la bontà d'animo, non solo con la cieca violenza e la sopraffazione. Quando Arko, il vile smascherato, si scagliò contro la più sublime di tutte le donne, ruppi la promessa fatta a Tsìppiri e gli trapassai il cranio con la spada”.


Ormuk              Disegno di Stefano Gesh


La principessa Tsìppiri
“Cos'è la vita senza la comprensione? Cosa sono gli individui senza la consapevolezza di essere tutti fratelli? Siamo circondati dalla bellezza, e con la nostra immagine e con le nostre azioni, diamo lustro a questo mondo di cui siamo figli. Dobbiamo ogni giorno ringraziare gli dei, per avere avuto la grazia di appartenere a questa vita.
Ho amato mio padre e mia madre come fossero dirette emanazioni degli dei. Ho amato la mia jana, pregando e ringraziando ogni giorno le divinità per avermela concessa, con tutta la sua sapienza. Ringrazio il destino per avermi fatto conoscere Ormuk, quest'uomo bello come un dio persiano, e dal cuore d'oro. Ho ringraziato gli dei per avermi fatto conoscere Malgib, una donna ambiziosa che mi ha fatto capire che oltre le virtù ci sono i vizi, e la cupidigia è uno dei peggiori. Ho perdonato Arko, per la sua ira cieca e vendicativa, ho pianto per la sua anima, e ho pregato per la sua redenzione.
L'amore che porto non lo terrò solo per me: amo il mio popolo, la mia terra, il mare e il cielo. Mi hanno insegnato che l’invidia e l’egoismo portano cattivi frutti, e ciò che ci circonda è di proprietà di tutti gli essere viventi.
Abiuro la guerra, e non si deve ricorrere alla violenza neppure per legittima difesa. Per questo, il mio impegno da sovrana sarà quello di condurre con mano sicura ma senza violenza la mia terra, tutte le donne e tutti gli uomini. Le avversità si possono affrontare con l'arma della compassione verso i più deboli, per un futuro di speranza nell'evoluzione dell'umanità. L’obiettivo sarà raggiunto solo con la pace, con la collaborazione, con le unioni, le alleanze, le passioni per il bene comune. Al mio fianco ci saranno sempre il mio amato Ormuk e tutto il popolo sardo. Avrò l'appoggio di tutti coloro che mossi da un condiviso desiderio di progresso hanno a cuore le sorti dell'essere umano.”






Le Poesie di Leon Cavaliere del Vento
(Joseph Manta)

La Principessa

Quei lunghi capelli neri
mossi dal vento
emanavan quel meraviglioso
profumo di rosmarino 
che inebriava la mia mente
lasciando spazio alla fantasia
e alla tua meravigliosa immagine.
Sì, chiudo gli occhi 
E la tua meravigliosa immagine 
appare come per incanto innanzi a me.
Sei meravigliosamente bella. 
Lunghi i tuoi capelli, 
i tuoi occhi di un tenero verde smeraldo,
le tue labbra rosso vermiglio. 
Il tuo viso come un raggio di sole, 
le tue lunghe e affusolate mani
sfilano con dolcezza la tua veste 
mentre in silenzio ammiro il tuo corpo,
di una perfezione statuaria. 
Ma come ogni volta tu, 
con grazia, ti doni al mare
immergendoti nei suoi fondali,
per uscirne poi ancor più bella,
con quei capelli bagnati che fan da contorno 
a quei meravigliosi occhi
che sembran due pietre incastonate,
per risaltare quel nasino all’insù,
che è in perfetta armonia 
con quelle labbra che io tanto bramo.



Il Vascello

Ti guardo,
 e mi inchino innanzi a te
con il dovuto rispetto,
 e mi perdo nella tua immensità.
Quel legno di acacia è lì che aspetta me.
E’ passato appena un lustro
da quando qui ti lasciai.
Ho girovagato su questa terra,
dove la flora e la fauna
sono forti e vigorose.
Ho appreso gli insegnamenti
e ora li porto con me.
Sono semi e germogli da portare in terre lontane.
Con cura ripongo il tesoro nel legno,
ed apro la cassa.
Sì, è ancora lì.
La prendo, l’aggancio, la tiro su per l’albero.
Lentamente si srotola.
E’ un po’ ingiallita, ma è ancora forte e robusta.
Un sussulto.
Il legno di acacia riprende vigore,
 il vento è propizio, si gonfia la tela,
or si parte per lidi lontani
dove aspettan laboriose mani.
L’attimo

Al tramontar del sole
già sorgevano le stelle,
solitarie,
nel cielo che a me straniero era,
mi guidavano nella giusta
via della vita.
Amore, gran parola.
Amore, gran fonte di vita.
Amore, sentirsi vivo.
Amore senza dare e chiedere
amore, ricevere quanto può bastare.
Affondare le mie labbra nei tuoi occhi
sotto il ciel d’Oriente e portare con me un dolcissimo ricordo
d’un momento che mai fine avrà,
e per sempre in me vivrà.









L’attesa
Vengo qua ad alimentar lo fuoco,
E su questi irti scogli curo lo seme della speranza.
Levasti le ancore della tua nave,
facendo promessa di ritorno,
chiedendomi di giurare di non far mai spegnere lo fuoco
che abbia a orientare la nave tua
per lo sicuro porto.
Son trascorsi molti lustri.
Il seme germoglia, cresce e divien albero.
E prima ancor di fornir legna per lo fuoco,
esso mi fa dono di un nuovo seme.
Guardando l’orizzonte
molte son le vele che ho visto,
le tue navi solcar lo mare
e il mio core impazziva di gioia
nel pensare che mi venivi a trovare.
Ancor se fosse ieri,
quando avevo la età di quattro lustri
Allor che mi dicesti:
“Or pensa a crescere, e apprendi la terra ferma
Che poi io nello giusto tempo salirò su questa nave”.
Credo forse di esser ormai cresciuto,
e di esser pronto per lo imbarco.
In questi mille lustri nello aspettarti
ho appreso come amarti.














Fine

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